Dal diario del Marinaio Renato Catalucci

Terminate le scuole elementari a Porcari (LU), mio padre che era capostazione titolare di quella stazione, proseguii gli studi a Lucca, facendo le complementari.
Eravamo nel 1924/25, i tempi erano duri come oggi.
Siamo agli albori del Fascismo, legnate e olio di ricino a chi non seguiva quella strada.
Fui balilla e avanguardista, lavoro non se ne trovava. Fu in quei frangenti che decisi di arruolarmi nella Marina Militare per imparare un mestiere.
Feci la domanda per l’arruolamento come torpediniere elettricista. Venne il grande giorno, mi presentai al deposito C.R.E.M. di La Spezia, era il 30 settembre 1930.
Trascrivo qui la testata del mio foglio matricola.
CATALUCCI Renato figlio di Manlio e di Lupori  Jole, nato il 13 Ottobre 1913 a Borgo a Buggiano Lucca (ora Pistoia), domiciliato a Porcari prov. Lucca, statura m.1,60, capelli neri segni particolari, piccola cicatrice guancia sinistra, occhi grigi colorito rosa bruno dentatura sana, condizione studente, Compartimento Marittimo Viareggio. Arruolato volontario a premio nel C.R.E.M. dal Comando deposito C.R.E.M. di La Spezia in qualità di all. Torpediniere Elettricista, per la ferma di anni 4 a decorrere da 1 Dicembre 1931.
Così cominciò la mia vita di Marinaio.
Terminato il corso di all. elettricista fui imbarcato sul R. Esploratore VIVALDI, dal 29/11/1931 al 23/5/1933.



Motto dell’unità: “Con la prora diritta a gloria e a morte” (da la notte di Caprera di G. D’annunzio)



Appartenente alla classe “Navigatori”impostato il 16 maggio 1927; varato il 9 gennaio 1929; in servizio 6 marzo 1930. Dislocamento standard 2.125 t;pieno carico 2.880t; Lunghezza 107m; larghezza 11,5 m. Propulsione 4 caldaie Odero; 2 gruppi di turbine a vapore Parson con 2 assi. Velocità 38 nodi ridotta in seguito a 28 nodi. Equipaggio 15 ufficiali; 215 tra sottufficiali e marinai.

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Il Vivaldi e gli altri esploratori appena costruiti e senza centrale di tiro, si apprestarono a fare da ponte in Atlantico alla crociera degli aerei S. Maria di Italo Balbo, che da Orbetello, partivano attraversando l’atlantico per arrivare fino a Rio de Janeiro. Partimmo da La Spezia per Casablanca in Marocco sull’oceano Atlantico. Attendemmo che gli aerei partissero da Orbetello, noi e gli altri Eploratori ci “ stendemmo “ in Atlantico facendo da ponte lungo la rotta dei velivoli. Il mare fu abbastanza tranquillo, fermi in Atlantico per aspettarli non era confortevole. Passati gli aerei ci riunimmo per fare da sosta a Natal in America del Sud. Dopo il rifornimento partimmo per Rio. Al nostro  arrivo a Rio, sia gli italiani che i brasiliani ci accolsero con festeggiamenti, inviti a feste e visite nei locali notturni. Le donne in genere ci adoravano, ci invitavano per stare con noi marinai. Dopo una settimana di feste, purtroppo ripartimmo per l’Italia.
L’Atlantico questa volta non fu clemente con noi. Arrivammo alla Spezia abbastanza provati. Pochi giorni dopo con il Vivaldi con il Mosto e con il Da Noli, partimmo per Genova, dovevamo montare le centrali di tiro. Passammo alcuni mesi. Fu una pacchia per noi. La sera io e altri due colleghi ci fecero entrare in un locale notturno situato nei paraggi di piazza De Ferraris. Locale di lusso. Noi si ballava bene e così ci accettarono, eravamo gentili  e conoscemmo molte signore e signorine eleganti e dabbene (almeno in apparenza). Finiti i lavori si rientrò in Squadra a La Spezia.
In questo lasso di tempo dal 1931 al 1933 molte furono le crociere che facemmo.
Una fu quando scortammo S.M. il Re imbarcato sulla nave Reale Savoia. Andava a rendere visita ad Alessandria d’Egitto a Re Fuad, padre di Re Faruch.

Dovevamo rimanere in Egitto circa tre mesi. Ricordo questa navigazione perché si trovò un mare tremendo. Partimmo da Brindisi la sera al tramonto, io ero di sevizio nel locale dinamo. Avevo tutte e due le dinamo in funzione perché eravamo in manovra per salpare le ancore. Appena fummo fuori il porto di Brindisi cominciammo “ a ballare “. Dalla plancia mi dettero ordine di fermare una dinamo. Il mare si faceva sempre più grosso, era l’ora di cena, mandai il mio sottordine, un silurista a cenare per poi darmi il cambio e andare poi io a cena. Il tempo passava ed il mare si faceva sempre più grosso, si stava male in piedi: Il mio sottordine non lo vidi più. Alle ore 20,00 aspettavo il cambio guardia, invece non si presentò nessuno, aspettavo il capo elettricista che a cose normali veniva in dinamo per vedere se tutto fosse normale, ma anche lui non si vide. Il tempo peggiorava, io  solo cominciavo già a sentire un po’ di agitazione di stomaco. Infatti dalla sentina veniva su un odore nauseante, acqua di mare che dalle maniche a vento spesso veniva giù in genere quando si prendono incappellate che da prua arrivano fino in plancia. Passate le 24,00 mi sentivo male, telefonare in plancia non volevo perche poi ci sarebbe andato di mezzo il capo elettricista ( come poi fu ). Dopo aver dato fuori di stomaco, mi sdraiai sul bancone di ferro, dove oltre agli attrezzi vi erano due morse per i lavori. Sfinito, fra le morse ed il fasciame della nave per non cadere. Alle 4,00 del mattino, speravo mi venissero  a dare il cambio invece non venne nessuno. Non mi reggevo in piedi e così rimasi sdraiato. Il mare si era un po’ calmato, ( seppi poi che nella notte avevamo cambiato rotta passando sottovento alle isole Ionie ). La mattina verso le 8,00 squillò il telefono, non avevo la forza di alzarmi per rispondere, ad intervalli squillò ancora ma non risposi. Dopo dieci minuti scese nel locale dinamo l’ufficiale di rotta che era di guardia in plancia, mi trovò in quelle condizioni, sporco e stressato, era dalle 16,00 del giorno precedente che ero rimasto di guardia in dinamo senza mangiare e senza un goccio di caffè.
L’ufficiale mi aiutò ad alzare e mi disse che eravamo in vista di Alessandria e si doveva mettere in moto la seconda dinamo. Mentre riscaldavo la turbina per farla partire arrivò il capo elettricista. Vidi l’ufficiale parlare con il capo della situazione e probabilmente della mancata vigilanza, (certamente il capo fu punito,perche i primi 7 o 8 giorni della permanenza ad Alessandria non lo vidi mai uscire in franchigia ), fui così rilevato, rifocillato e andai a dormire ma lo stomaco era ancora scombussolato.
Alessandria città in parte orientale con grandi vie e molti italiani. Mentre passeggiavamo qualche giorno dopo il nostro arrivo, eravamo due marinai e un 2° capo, incontrammo due giovani coetanei con all’occhiello della giacca il distintivo del fascio. Erano Italiani. Noi avevamo bisogno di cambiare li nostre lire, pensarono loro per il cambio. Erano due fratelli.  Ci vollero invitare a casa loro, i genitori di questi ragazzi ( erano costruttori di mattonelle per marciapiedi ), le rispettive mogli (sicule ) avevano una prole numerosa fra maschi e femmine. Iniziò così questa amicizia. La villetta aveva come tetto una bella terrazza e quasi ogni giorno ci si ballava. Furono questi giovani donne e uomini a portarci al Cairo e poi andammo a dorso di cammello a vedere le piramidi. Facemmo molte foto, alcune ne conservo tutt’oggi.  Con una di queste ragazze ci entò una simpatia e anche quando ritornai in Italia, mi mandò delle foto vestita da odalisca.
In quei tempi la Marina andava spessissimo all’estero, ma non una sola nave ma a Divisioni, ossia due incrociatori leggeri e quattro esploratori.
Così andammo a Tripoli, Tobruch  in Libia. In altri fummo in Turchia a Boma, Philippeville. Qui successero due casi incresciosi. In questa città vi erano molti italiani fuoriusciti perché contrari al regime fascista. Arrivammo un pomeriggio e attraccammo alla banchina, eravamo quattro esploratori, i due incrociatori erano alla fonda in rada. La mattina seguente, sul muraglione frangi flutti del porto avevano scritto con parole cubitali in vernice nera “ Morte a Mussolini “. L’ammiraglio Comandante la Divisione, mandò una imbarcazione con un picchetto armato e alcuni marinai con vernice bianca,cancellarono "Morte a Mussolini" e scrissero  "Viva Mussolini", fu una mossa azzardata perché per far sbarcare un picchetto armato ci vogliono disposizioni dal Governo che ci  ospita.
La cosa morì li. Il Sindaco fece le sue scusa all'Ammiraglio dicendo che erano stati Italiani contrari al regime vigente. Nella piazza centrale di Philippeville,  grande  e rettangolare, c'era una grande pasticceria e bar, con sale da gioco con grandi vetrate su tre piani. Il Comando aveva vietato di frequentare quel locale perché  il  proprietario  ere un antifascista. Prima di ripartire, il Sindaco e la cittadinanza, dettero in questa  grande piazza una festa da ballo in onore della Divisione Ospite, civili e marinai si divertivano. I molti marinai erano seduti nei bar adiacenti, ma nessun marinaio era seduto nel bar proibito. (Sembra che il padrone quando morì il fratello di Mussolini sparse la voce che era morto Mussolini, offrendo, dolci e spumante a tutti). Due marinai di un Incrociatore, forse ignari delle disposizioni date,si  sono seduti a quel bar ordinando un caffè. Quando il cameriere portò il caffè, loro pagarono senza consumare e già in piedi per allontanarsi.  (Qualcuno li aveva avvertiti).  Il padrone del bar contrariato, fermò i due marinai, ci fu un alterco e vennero alle vie di fatto. Successe una scazzottata generale, i civili, le donne e ragazze andarono via. I marinai oltre che pestare il padrone andarono nel bar e distrussero tutto, giù  e nei piani superiori, non ci rimase né un vetro sano né uno specchio. Vi furono tanti contusi e feriti più o meno gravi. Uno dei più gravi fu proprio il padrone. La rissa non fu causata  dall'alterco  con il padrone, quanto per vendicare la scritta "Morte a Mussolini". Il giorno dopo partimmo per rientrare in Italia.
Alcuni mesi dopo la Divisione partì per le Baleari,  noi gruppo esploratori prima andammo all'isola di Minorca e  attraccammo alla banchina di Porto Maon,  dopo alcuni giorni andammo in un'altra  isola e esattamente a Palma di Maiorca.  Vedemmo cosi la corrida, ci portarono in giro per l'isola molto verdeggiante, purtroppo dopo pochi giorni rientrammo in Italia. Così finirono le avventure e disavventure sull'Esploratore Ugolino Vivaldi.
A  bordo delle navi da guerra italiane, gli impianti elettrici di bordo erano tutti a corrente continua, ma nell’ambito  Civile la corrente era alternata. Come fare? A bordo solo la bussola giroscopica funzionava a corrente alternata, ma ci voleva una specializzazione, feci domanda ed il 24/5/1933, mi mandarono a Marinarsen,  La Spezia.

Feci il corso con esito positivo e in data 21/12/1933, imbarcai sull' Incrociatore Fiume per fare pratica. In data 1/12/1933 ero stato promosso Sotto Capo Elettricista e sopra i gradi le lettere in oro C.G. (conduttore Girobussolista)

Motto unità: SIC INDEFICIENTER VIRTUS (cosi il valore inesauribile).Si riferisce al motto INDEFICIETER (senza fine, inesauribile) che fin dal 1659 figura sullo stemma della città di Fiume insieme con un anfora che versa acqua, allusiva al nome della città.


IFiume fu un incrociatore pesante della Regia Marina italiana. Con altre tre navi gemelle (Zara, Pola e Gorizia) faceva parte della classe Zara, sviluppata negli anni 1930. Varato nel aprile del 1930 Dislocamento 13.260 T  a pieno carico 14.168 T. Lunghezza 182,8m; larghezza 20,6 m; profondità 6,2; propulsione  8 caldaie  2 turbine Parson; 2 eliche; velocità 32 nodi autonomia 4.480 miglia a 16nodi.8 cannoni da 203/53 Mod. 1927; 12 cannoni da 100/47 OTO ; 4 mitragliere 40/39mm; 8 mitragliere Breda  Mod. 31 da 13,2 mm; Corazzatura vert. 150 mm orizzontale 70 mm; torrette 150mm. 2 idrovolanti Piaggio P6 bis sostituiti Macchi M.41 ; Cant 25 Ar, CMSA  M.F.6 ed alla fine (1938) IMAM Ro 43, catapulta a prora.Nel corso della battaglia di Capo Matapan, il 28 marzo 1941, fu inviato assieme alle altre unità della I Divisione a soccorrere il gemello Pola, immobilizzato da un aerosilurante britannico. Le navi italiane furono però individuate dalle corazzate britanniche BarhamValiant e Warspite, che aprirono il fuoco contro le ignare unità della 1ª divisione. Il Fiume, illuminato per primo dal proiettore del cacciatorpediniere Greyhound, fu devastato da numerosi colpi da 381 mm; incendiato, sbandò sul lato di dritta sino a che capovoltosi, affondò. Tra le unità perse nella battaglia, fu quella che ebbe le perdite maggiori fra l'equipaggio: 813 morti su 1104 uomini a bordo, fra cui il comandante, c.v. Giorgio Giorgis, che fu decorato con la medaglia d'oro al valor militare.

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A bordo del Fiume la vita era più rigida rispetto al precedente imbarco. Ciò che ricordo del Fiume è stato quando andammo a Fiume per la consegna della Bandiera di Combattimento. Fu una cerimonia maestosa come usava all'epoca. La città  era carina a confine con la Jugoslavia, l'unico brutto ricordo di quei giorni, era che la mattina a dorso nudo in coperta a prora, (era inverno) dovevamo rompere il ghiaccio che si era formato nelle baie ricolme di acqua,  lavarsi la faccia e poi la biancheria. Nel periodo estivo la squadra navale di La Spezia si trasferiva a Gaeta, per esercitazioni stando alla fonda in rada. Da Gaeta si vedeva il Vesuvio che allora fumava, eravamo nel 1934.
In data 15/6/1934 mi venne il movimento di sbarcare dall’incrociatore Fiume e imbarcare  sul C. T. Baleno come conduttore girobussolista.



Motto unità: Fulgur in Hostem (come folgore contro il nemico)

Cacciatorpediniere della classe Folgore, Cantiere del Quarnaro Fiume; varo 1931; in servizio 15 giugno 1932; dislocamento standard 1540 t; pieno carico 2.100t; lunghezza 96,23 mt; larghezza 9,28 mt; pescaggio 4,5 mt; propulsione 3 caldaie; 2 gruupi di turbine su due assi; potenza 44.000 hp; velocità 38,8 nodi;equipaggio 6 ufficiali; 159 tra sottufficiali e marinai.Armamentop 4 pezzi Ansaldo 120/50; 2 mitragliere 40/39 mm; 4 mitragliere Breda da 13, 2 mm 6 tubi lanciasiluri da 533 mm.

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La vita a bordo del Baleno era più tranquilla e meno severa che a bordo del Fiume. Ricordo un episodio. Stando alla fonda a Gaeta, eravamo Nave di guardia, (pronti a muovere in meno di un'ora girobussola in moto 24 ore su 24. Era tempo bruttissimo, venne l'ordine di salpare subito. Nella zona antistante ad Anzio un veliero carico di pietrame alla rinfusa aveva lanciato S.O.S. Nel giro di poco tempo salpammo dirigendoci a Nord,per cercare il veliero, intanto si faceva notte. Il mare era tempestoso, appena fuori rada di Gaeta, cominciammo a ballare e rollare, l'ondate prese di prora lavavano la coperta da prua a poppa. Io in quel momento non ero di guardia in dinamo, fui destinato al proiettore pronto ad accenderlo al momento dell'avvistamento del veliero da soccorrere.
Io ed un altro marinaio indossammo i cappotti pesanti che si usano per la guardia in coperta, salimmo in coffa dove era il proiettore, ossia sopra la plancia all'altezza della sommità del fumaiolo. Eravamo li accoccolati per ripararci dal vento e anche dal fumo caldo e untuoso che veniva dalle caldaie. Verso le ore 24 avvistammo il veliero, disalberato tutto inclinato su di un fianco. Mi dettero l'ordine di accendere il proiettore per illuminare il veliero. Accostammo sopra vento, perche non ci venisse a sbattere contro, con quel mare era difficile e arduo manovrare. Una volta avvicinato il relitto, furono issati a bordo del Baleno il Comandante e quattro uomini dell'equipaggio e un gatto. Il nostromo ormeggiò una cima che ci lanciarono per poter rimorchiare il natante in procinto di affondare. Io e il collega in coffa sbatacchiati qua e la dal mare tempestoso , provvedemmo ogni tanto a sostituire gli elettrodi al proiettore, così da tanta luce si rimaneva al buio, illuminati solo da una luce della batteria portatile per poter cambiare gli elettrodi al proiettore e così riaccendere il  proiettore. Il mattino,  appena fatto giorno, scendemmo giù dalla coffa, stanchi e affamati per essere stati tutta la notte svegli. Avevamo la faccia e le mani nere e unte dal fumo delle caldaie a nafta. Con immensa difficoltà continuammo il rimorchio a rilento verso Anzio. Poco prima delle 12,00 si ruppe il cavo di rimorchio e poco dopo il veliero si inabissò. Così prendemmo la rotta per Gaeta. Eravamo sempre nell'anno 1934 sempre sul  Baleno. Un giorno venne l'ordine di muovere alle ore 8.00, misi in funzione la girobussola alle ore 4,00. Alle ore 7,30 imbarcammo 6 o 7 signori accompagnati da una decina di Carabinieri, facemmo rotta per le Isole di Ponza. Pensai, e così era, che fossero persone che la pensavano diversamente dal regime fascista. Durante la navigazione io ero di guardia in dinamo e stavo seduto sul boccaporto in coperta con le gambe sulla scaletta pronto a scendere giù per ogni evenienza. Questi civili erano liberi di girare a bordo, mentre io ero intento a guardare il quadro comando che vedevo pur stando seduto in coperta, mi si avvicinò un signore con una elegante pipa. Mi domandò di dove ero, quanto tempo era che mi trovavo in marina, come  si stava a bordo e altre cose della vita normale.
Arrivati a Ponza venne sottobordo una lancia dei Carabinieri che imbarcò i civili e la scorta. Noi partimmo subito per Gaeta. (Passata la Guerra 1940 - 1943, al governo non ci erano più i Fascisti).Quando come Presidente della Repubblica fu eletto Pertini, in Lui riconobbi quel signore che con il Baleno avevo accompagnato a Ponza. Probabilmente fra gli altri civili saliti a bordo ci doveva essere anche Nenni. Rientrati in seguito a La Spezia, alcuni mesi dopo andammo a Genova, al C.T. Baleno fu consegnata la Bandiera di Combattimento, grandi furono i festeggiamenti, ritornare a gironzolare per Genova che conoscevo bene per il periodo che c’ero stato con il Vivaldi. ln data 18/4/1935, cambiai totalmente genere d'imbarco. In tale data fui imbarcato sul sommergibile TITO SPERI.




 

Il Smg. SPERI - come più speditamente veniva nominato - era l'ultimo dei quattro battelli della classe "MAMELI" (Mameli, Capponi, Da Procida e Speri), realizzati negli anni fra il '25 e il '29 presso i Cantieri TOSI di Taranto. Si trattava di sommergibili "di media crociera" molto ben riusciti, che operarono a lungo ottimamente.

Le caratteristiche tecniche di questi battelli erano: carena: tipo Cavallini a doppio scafo parziale;; profondità max: 100 m con coefficiente di sicurezza 3; dislocamento: 842,5 t (in superficie) - 1.010 t (in immersione) dimensioni: 64,64 m (lungh.) – 6,52 m (largh.) – 4,31 m (pescaggio) potenza app. motore: 3.000 (poi 4.000) HP (in superficie) - 1.100 HP (in immersione); velocità max.: 17,2 nd (in superficie) - 7,7,nd (in immersione); autonomia: in superf. (carico norm.): 790 mg a 17,2 nd - 3.295 mg a 6,9 nd; autonomia in superf. (sovraccarico): 1.703 mg a 17,2 nd - 7.100 mg a 6,9 nd;m autonomia in immersione: 7,5 mg a 7,7 nd - 80 mg a 4 nd armamento: 6 tubi lanciasiluri da 533 mm (4 a prora e 2 a poppa); 10 siluri da 533 mm (6 a prora e 4 a poppa); 1 cannone da 102 mm/35 cal.; 2 mitragliere singole da 13,2 mm; equipaggio (tabella): 49 persone, di cui 5 ufficiali.

http://www.sommergibili.com/titoSperi.htm

Vita nuova rispetto a come si viveva sulle navi di superficie. Il sommergibile faceva parte di un squadriglia di cinque unità facendo parte della Scuola Comando. Tutti i giorni si usciva in mare imbarcavano in genere dei Tenenti di Vascello che dovevano abilitare alla manovra dei sommergibili per poi essere promossi a Capitano di Corvetta. Facevamo esercitazione di navigazione, immersioni ed emersioni. Noi come equipaggio del battello, oltre a tutte queste manovre c'era da fare la vasca Belloni. La vasca Belloni consisteva in un grosso cilindro alto circa 12 metri e largo 10 metri pieno d'acqua per una altezza di dieci metri di acqua.
In fondo a questo grosso cilindro vi era una specie di cabina che poteva contenere sei persone con una porta stagna dall'esterno ed un altra pure stagna, che immetteva coll'interno del cilindro. Sotto il controllo di un medico dovevamo indossare gli autorespiratori, una volta controllati i battiti cardiaci, raggiunta la pressione di detto locale a due atmosfere, si poteva così aprire il portellone interno, dopo aver allagato il locale. La durata della bombola di ossigeno era di un'ora, e fino a che non era esaurita dovevamo rimanere immersi.
La Scuola comando aveva la base a Taranto. Nel Dicembre del 1935, era già in atto la guerra in Africa Orientale per la conquista da parte d'Italia dell'Etiopia. A bordo avevamo imbarcato i siluri a testa corica (da guerra). Mentre prima avevamo sei siluri, quattro nei tubi di lancio a prora e due nei tubi di lancio di poppa, ora ne avevamo anche sei di riserva. Una mattina di quel Dicembre uscimmo in mare eravamo 5 battelli: Speri, Mameli, Galatea, Bragadin,  quest’ultimo  era un posa mine, del quinto non ricordo più il nome. Al  largo vi era tutta la  squadra navale per esercitazioni. Sull'incrociatore Trento vi era una troupe di Cineasti, uno di questi era Gino Cervi dovevano fare delle riprese  per il film "Aldebarand". Il  compito nostro era quello di simulare un attacco alla squadra a branco di lupo. Erano le prime esercitazioni  che venivano fatte con questo sistema. Ore 9,00, si avvista la squadra, il capo squadriglia ordina di mettere la prora versa la squadra, e distanziarsi di circa centro metri, disponendoci a ventaglio ed immergersi andando all'attacco. A bordo tutto procedeva normalmente, io ero alla manovra del motore di sinistra.  Alle 9,20 circa, navigavamo a circa 9 miglia, quando verso prora si senti uno schianto e uno scossone come se si fosse urtato contro qualcosa. Io avevo urtato contro il volante del reostato e mi sanguinava un labbro, tutti i presenti elettricisti e siluristi erano più o meno contusi. II battello si appruò paurosamente, da sopra i tubi di lancio di prora imbarcavamo acqua. Nella camera di lancio di prora sotto il pagliolato vi era il locale batterie di prora chiudemmo ermeticamente il locale perché se entrava acqua nelle batterie si sarebbe formato il cloro. Il comandante dette l'ordine di abbandonare la camera di lancio di prora e chiudere il portellone stagno perché l'acqua saliva e il battello si appruava sempre di più. Non ci si poteva muovere da un locale ad un altro perché  si scivolava. Avevamo raggiunto una inclinazione molto forte, circa 15 gradi, non sapevamo a che profondità eravamo. Gli strumenti davano varie profondità,  alcuni 40 metri altri 60, uno addirittura 80 metri. Il comandante più volte dette aria alle casse per svuotarle e motori a tutta forza indietro, ma il battello non si muoveva. Dopo svariate manovre il comandante desistette  per non consumare l'aria compressa che ci sarebbe servita per respirare. Il comandante ci diceva di stare tranquilli in quanto il Comando in Capo sapeva, in quale zona (fuori Taranto a nord) eravamo a largo nei pressi di Meteponto.
“ Vedrete, quanto prima i palombari ci troveranno e sapremo cosa è successo”. Il  tempo passava in silenzio, avevamo poca voglia di mangiare, qualche pezzetto di galletta Venchi Unica, qualche pezzetto di cioccolata. Le ore passavano, faceva caldo anche se “fuori”  era Dicembre.

I pensieri aumentavano , fuori tutto silenzio e doveva essere già buio, i pensieri aumentavano , vidi un maresciallo con il portafoglio in mano guardava la foto della moglie e della figlia. Il comandante venne poppa a confortarci, con noi si erano riuniti i motoristi,  altri Ufficiali ed i sottoufficiali. Io pochi giorni prima avevo riscosso il premio di fine ferma di £ 5.000. Il mio proposito era quello di comprarmi una moto e trovarmi un buon lavoro con l'esperienza da elettricista che avevo acquisito. I soldi e l'orologio come di consueto si tenevano in tasca dentro un preservativo ben annodato perché non si bagnassero. Nel dormiveglia pensavo “probabilmente morirò, ho 22 anni e non potrò spendere questi soldi”, rimarranno qui con me”,pensavo ai miei genitori lontani ignari di tutto. In tempo di pace vi era un dispositivo per segnalare un sommergibile affondato. Il dispositivo consisteva in una boa luminosa che conteneva un telefono coassiale con un cavo di ormeggio di circa 120 metri. Si poteva liberare dal sommergibile attraverso un volantino che si manovrava da dentro il battello. Ma in tempo di guerra questo dispositivo veniva tolto. Il tempo passava lento e in silenzio, nessuno aveva voglia di parlare. Erano già trascorse più di 24 ore dall'incidente quando verso le 11 del giorno dopo sentimmo dei colpi dal di fuori. I palombari ci avevano trovato, con l'apparato Morse  iniziarono a comunicarci le notizie di quello che era accaduto. Il sorriso tornò a tutti sulle labbra, ora non ci preoccupava lo stare ancora a fondo, eravamo abituati ai lunghi periodi di immersione. I palombari ci attaccarono le manichette per darci aria fresca dall'esterno. Con l'alfabeto Morse ci comunicarono in quale situazione eravamo. Avevamo il somm. Bragadin di traverso su di noi, sbandato e appoggiato alla nostra plancia, ci aveva sbarbato il tagliareti a prua, le antenne radio portate via ed il cannone pure lui portato via. Ecco perché a prua imbarcavamo acqua.


7 dicembre 1935 - Collisione tra il Smg "Tito Speri" e il Smg. "M. Bragadin"

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Ci comunicarono che da La Spezia era partito a rimorchio il pontone "Anteo",potente gru per sollevare grossi pesi. Uno dei due battelli vuol dire che aveva la bussola leggermente sfasata. Io dopo l'urto avevo fermato la giro bussola  per ogni evenienza. Passò anche il secondo giorno, pur stando in forte disagio passò tranquillo . Sulla sera del terzo giorno arrivò l’ Anteo, i palombari, mentre il paranco a molti rinvii scendeva lentamente, agganciarono i cavi d'acciaio ai maniglioni dello Speri. Si  era fatto notte e tutte le manovre, furono rimandate al mattino seguente, quarto giorno. I palombari  ci comunicarono  che eravamo ad una profondità di circa 40 metri. All'Anteo per tiraci su da quella profondità li sarebbero volute molte ore. Quando cominciammo ad emergere lo Speri  emerse solo con la poppa il timone, le eliche, ed i tubi di lancio, come ben si vede dalle foto in mio possesso, riprese dal Sirena. Mentre del  Bragadin, tutto inclinato sulla destra, era emersa la torretta e parte della coperta. L'equipaggio poté uscire tutto,  mentre noi rimanemmo ancora nello scafo. Dato il peso dei due battelli, lo Speri pesava 800 ton. e il Bragadin  600 ton. Se l'Anteo avesse continuato a sollevare i due sommergibili rischiava di affondare. Il Comandante visto che nessun portello del battello si poteva aprire per uscire, decise di togliere un siluro da un tubo di lancio. Manovra difficile e pericolosa per la forte inclinazione. Dopo tante manovre il siluro fu tolto. Aperto il portello esterno del tubo di lancio, un marinaio munito di un rampino collegato ad un cima con parecchi nodi par potersi issare, immaginate l'interno del tubo tutto ingrassato, perché il siluro possa scorrere. Iniziò ad uscire  seguito da tutto il resto dell'equipaggio, ultimo fu il comandante. Arrivati all'estremità del tubo di lancio ci gettammo in mare da un’altezza di circa 5 metri. L'acqua era fredda  galleggiata tutta la nafta fuoriuscita dai serbatoi dei due  battelli. Ci raccolse il Sirena, dandoci coperte e bevande calde. Fummo ricoverati in ospedale, ci lavammo per levarci quella nafta che ci ricopriva dalla testa ai piedi, dopo varie visite ci fecero rientrare in caserma sommergibili. Come fecero a staccare il Bragadin  dallo Speri non lo so. Mi fu raccontato che il Bragadin  rientrò in arsenale passando dal ponte girevole sorretto dal pontone Anteo.
Lo Speri tolto  il Bragadin, prima di rimettersi in assetto, probabilmente  qualcuno rientrò dal portellone del tubo di lancio rimasto aperto e chiuderlo, poi pompare le acque dalla prora rimasta allagata. Mi ricordo che andai volontario a bordo per vedere la situazione delle batterie e se erano ancora cariche. A lento moto con i nostri mezzi rientrammo in Arsenale. Al passaggio del ponte girevole molta gente dalla strada guardava lo Speri, ammaccato, con il taglia reti sbarbato e senza il cannone di prora.
Dopo due giorni entrammo in bacino per i lavori.
I primi di gennaio dal Ministero nella Marina ci arrivò una targa in ricordo di quel brutto avvenimento con su scritto:
“ Ministero della Marina Roma 28/12/1935- XIV.  Al Sommergibile Tito Speri in occasione di una collisione con altro sommergibile avvenuta in corso di un'esercitazione. Ufficiali ed equipaggio di codesta unità alla prontezza e perizia dell' emanazione ed esecuzione dei provvedimenti necessari per evitare gravissime conseguenze facilmente prevedibili, hanno accoppiato contegno calmo, attento, sereno ed efficiente attivo. Elogio tutti indistintamente.
Il Segretario di Stato CAVAGNARI “

In data 15/03/1936 imbarcai sul sommergibile Mameli, stessa classe dello  Speri .
Nel periodo estivo facemmo una crociera nel Mar Rosso toccando Massaua,  poi passammo nell’oceano Indiano facendo tappa a Mogadiscio. Città caotiche poco pulite. Portammo alcuni ricordi come fanno tutti i turisti. In autunno rientrammo a Taranto.


Motto unità: OSA E COMBATTI

Varato come MASANIELLO , con R.D. Del 16 gennaio 1927 assunse il nome di Goffredo MAMELI.
Il 29 settembre 1928 entrò in collisione con il rimorchiatore San Pietro riportando alcune avarie allo scafo.
Il 19 aprile 1929, durante una navigazione con mare grosso perdette la vita l'SC Silvio DELIA.
Allo scoppio del II conflitto al Comando del CC Nicola MAIORANA l'unità effettuò una missione nelle acque di Malta affondando con il cannone , dopo aver lanciato 5 siluri andati a vuoto, il piroscafo Greco Raula di 1044 t.
Nel 1940 effettuò 4 missioni a nord di Bengasi e nelle acque di Malta , nel 1941 effettuò ulteriori 3 missioni e trasferito alla scuola di Pola per lo stato di usura dei motori.
Nel 1942 effettuò 3 missioni di pattugliamento antisom , fino al settembre 1943 , rimase ai lavori di trasformazione . Motto: Osa e Combatti

http://www.grupsom.com/Sommergibili/mameli.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Goffredo_Mameli_(sommergibile)

Fui rinviato dalle armi per smobilitazione in data 15/10/1936.
Mio Padre era stato trasferito da Porcari a  Castel Fiorentino (FI) sempre come Capo Stazione Titolare ed lo andai ad abitare in questo bel paesone,  in attesa di trovare un lavoro. Così coronai il mio sogno che nei momenti tristi anelavo. Comprai la moto.
Il sogno durò poco, perché il 29/12/1936, fui richiamato a presentarmi al deposito C.R.E.M. a La Spezia.
Il 05/01/1937 fui imbarcato sul sommergibile  Jalea  di base a La Spezia. La guerra in A.O.I. era terminata, ma in Spagna ne era cominciata un'altra.



Motto unità: Aude et Vinces (Osa e vincerai)

Varato il 15 giugno 1932; Allo scoppio del II conflitto , lo Jalea fu inviato in agguato nello stretto di Caso , rientrato a Lero il 14 giugno 1940 , svolse intensa attività nel Mediterraneo orientale senza mai avvistare unità avversarie.
All'inizio del 1941 fu destinato alle Scuole Sommergibili di Pola dove rimase fino all'agosto 1943.
Assegnato alla base di Taranto, disimpegnò intensa attività bellica fino all'armistizio.
Lo JALEA fu l'unico smg della serie “Argonauta” ad arrivare a fine conflitto.

All'inizio della primavera il Comandante ci riunì per comunicarci che dovevamo fare una missione  all’estero segreta, se qualcuno voleva sbarcare, facesse domanda, chi l'avesse fatta, nessun provvedimento disciplinare sarebbe stato  preso a suo carico.
Figuratevi se qualcuno fece la domanda, all'estero si guadagnava di più.
Finiti tutti i preparativi per la partenza, avevamo caricato su di un carro ferroviario, tutto il materiale del sommergibile come cordame e altre cose. Il carro fu spedito a Napoli perché dopo la missione, Napoli sarebbe stata la nuova residenza. Il giorno seguente all'alba partimmo, rotta Sud. Prima tappa fu Cagliari dove arrivammo in serata. Subito rifornimento di carburante, acqua e vi veri freschi. Al mattino seguente partimmo rotta Ovest, navigammo tutto il giorno. A La Spezia avevamo imbarcato un certo numero di casse che avevamo in coperta. Al tramonto per l'ammaina bandiera, il Comandante venne in coperta a poppa con grosso plico sigillato. Lo aprì  in presenza nostra e lesse:   La nostra destinazione era di stare in agguato davanti il porto spagnolo di Cartagena. Porto militare Spagnolo, simile a La Spezia, attaccare tutto il naviglio Spagnolo Rosso o di quelle nazioni che appoggiavano i Rossi. Furono aperte quelle casse che contenevano vestiario tute giallognole che indossammo, biancheria stesso colore, magliette ed altro.
La riunione fu sciolta e ognuno ai propri posti di manovra, la contentezza si calmò e cominciarono i pensieri: era l'inizio della Guerra.
La mattina dopo, verso le 11,30 arrivammo davanti a Cartagena, due caccia facevano la spola davanti all'imboccatura del porto. Il Comandante dal periscopio, guardava quale era la situazione migliore per attaccarli. Così virammo per attaccarli con i siluri di poppa.
Mentre il battello virava, i siluristi preparavano i due siluri di poppa.  Ad tratto i due caccia si diressero verso l'imboccatura del porto e rientrarono e così l'azione andò in fumo.
Nel pomeriggio nessuna nave entrò in porto o ne uscì. Appena fu buio pesto, emergemmo, furono messi in moto i motori termici per caricare le batterie. Fu consentito all'equipaggio,  a gruppetti di tre o quattro di salire in plancia per fumare o fare i propri bisogni corporali in coperta. Per fumare si accendeva la sigaretta, nella torretta mantenendola fra le due mani accoppiate, il fuoco delle sigarette di notte si vede da molto lontano,quando si tirava la luce aumentava, perciò era obbligatorio abbassarsi al disotto della spalletta. La notte passò tranquilla, girando sempre. All'alba ci immergemmo dirigendoci di nuovo davanti al porta di Cartagena,rimanendo in agguato. Dal porto usci solo un peschereccio ma nessuna nave. Nel pomeriggio ecco uscire di nuovo i due caccia torpedinieri. Il comandante dette "posto di combattimento". Io come posto di combattimento ero destinato alla leva della"Rapida immersione". Il comandante al periscopio di attacco prendeva la distanza dal bersaglio. Dette ordine al timoniere, di virare di 90° per mettere la poppa verso i caccia. Poco dopo ordinò ai siluristi di approntare i tubi di lancio 5 e 6 e tenersi pronti al lancio. A bordo tutto silenzio, tranne il rumore dei motori elettrici in funzione. Il cuore mi batteva forte, mi sembrava che chi mi era a vicino sentisse i battiti del mio cuore. Ad un tratto il Comandante disse fuori 5 sentimmo il fruscio del siluro che era partito, 30 secondi dopo, risuono la voce del Comandante fuori 6. Non so quanti secondi passarono. Tutti eravamo tesi in attesa dello scoppio del primo siluro. Dopo pochi secondi, udimmo il deflagrare del primo siluro e poco dopo il secondo scoppio. Il comandante disse: gli abbiamo portato via la poppa ad uno, e ordinò rapida immersione, timoni a scendere, avanti tutta. Io tirai la leva della rapida, il battello cominciò ad appruarsi mentre scendevamo ad un quota di sicurezza. Io per non cadere per l'appruamento del battello, in attesa dell'ordine di chiudere la rapida i aggrappai al diamante del portellone che separava la camera manovra dall'alloggio ufficiali. Purtroppo il portellone non era stato fermato come di regola, con l'appruamento forte, si chiuse tranciandomi quattro dita della mano sinistra. Sentii un dolore tremendo ma non aprii bocca, chiusi la mano a pugno per perdere meno sangue senza dir niente mi sentivo svenire da un momento all'alto. Fermati i motori elettrici aspettammo che l'altro caccia venisse per lanciare le bombe di profondità. Fu  all'ora che un capo meccanico avviso il comandante che mi ero ferito. Mi portarono vicino alla cassetta medicinali per medicarmi e fermare il sangue. Fui medicato,ma il dolore era atroce. Dai tagli delle quattro dita si vedevano le ossa delle 4 falangi. Appena fasciata la mano ritornai al mio posto di combattimento, ma il dolore era fortissimo. Il comandante dette l'ordine di tornare a quota periscopica per vedere cosa era successo, fece virare il battello di 180° mettendo la prua verso i bersagli. Arrivati a quota periscopio, vide che il secondo caccia anziché venire a darci la caccia stava raccogliendo i naufraghi del caccia semi affondato. Dal periscopio di osservazione tutti i presenti  si poteva  vedere tutta la  scena del caccia colpito,non si vedeva più la poppa, la prua era molto fuori dall'acqua. Il Comandante fece mettere i motori avanti al minimo per fare poco rumore e avvicinarci al bersaglio. Voleva silurare anche il secondo caccia dando ordine ai siluristi d'approntare i tubi di lancio 1 e 2. Poco dopo il comandante emise una frase di sdegno e disse: il caccia si è messo in moto e rientra in porto, mettendosi poppa e prua nella medesima direzione nostra. Mise i motori in moto per seguirlo, ma l'azione svanì. Attendemmo fino a notte per vedere se riusciva dal porto qualche cosa, ma fu tutto vano. A mezzanotte eravamo in superfide con i motori termici in funzione per caricare le batterie. Come di consueto si mise in comunicazione con Roma annunciando che avevamo silurato un caccia "Churruca" e durante l'operazione il S. Capo elettricista CATALUCCI Renato si era ferito gravemente alla mano sinistra.
Roma rispose facendo le congratulazioni al comandante e all'equipaggio, riguardo al ferimento del sottocapo, se fosse subentrata la febbre o infezione, rientrare subito a Cagliari. Da Cartagena ci voleva 48 ore di navigazione, ero in tempo di morire d'infezione. Dal Comando dello Jalea  mi sono fatto rilasciare una dichiarazione con quanto era stato scritto sul registro di chiesuola  del somm. Jalea. Estratto del giornale  di chiesuola del somm. Jalea  ••••••• ore 18,00 il Sottocapo Elettricista CATALUCCI Renato matr. 28059 mentre sfogava la rapida immersione si agguantava con la mano sinistra al diamante della porta stagna,per un forte appruamento del battello, questa si chiudeva schiacciandogli la mano sinistra, riportando la frattura della seconda falange dell'indice e profonde ferite a tutte e quattro le dita.
Dalle ore 8 dell' 11 alle ore 8 del 12/8/937. Nella guardia del Sig. Com.te Silvio GARINO. Giornale di chiesuola R.P. del R° Sommergibile Jalea mese di Agosto 1937  N°280. Il Guardiamarina Ufficiale di Rotta (Virgilio MANDALLI) Timbro tondo Comando 111 Squadriglia Sommergibili.
Il giorno 28/8/1937  rientrammo a Napoli erano passati 16 giorni dall'incidente. Andai in ospedale a Napoli, oltre le cicatrici, con ancora la crosta e un soprosso sull'indice, mi dissero che tutto era a posto e la mano guarita.
I primi di settembre partimmo per una missine speciale. Avevamo imbarcato svariate casse. Una mi dette nell’occhio era etichettata “ Breda “.  L’aprii e vidi che era piena di fucili mitragliatori a doppia canna. Mi informai su dove eravamo diretti e seppi che andavamo nel nord della Groenlandia a Bismarck.
La navigazione fu abbastanza buona, solo nel canale della Manica trovammo mare molto grosso.
Arrivati al 60° parallelo, ossia all’altezza della Groenlandia del sud, cominciammo a trovare i primi ghiacciai perciò dovemmo diminuire la velocità per non rovinare la carenatura esterna del sommergibile che è fatta di lamiera non tanto spessa.
Ci dirottarono su Nanoritalik proprio all’estremo sud della Groenlandia. Di li andammo poco più a nord in una stretta baia e proprio in fondo vi era un agglomerato di case di pescatori e un paio di bar per modo di dire, ma erano bettole.
Ai primi freddi avevamo indossato gli indumenti che ci avevano dato, ossia maglia da indossare a carne, mutande lunghe da potersi abbottonare alla maglia, pantaloni con scarpe, con pelo dentro e fuori che arrivava fin sotto le ascelle con bretelle, un camisaccio con pelo dentro e fuori e cappuccio, guanti sempre con pelo dentro e fuori con un solo dito il pollice collegati fra loro con un cinturino in pelle da passare dietro al collo. Per dormire un sacco a pelo molto caldo e comodo.
Lo scopo per il quale eravamo venuti così o nord era quello di collaudare tutto il materiale compreso le armi a quelle temperature. Quasi ogni giorno con una slitta a sei cani affittata sul posto andavamo a sparare con i mitra a varie altezze arrampicandosi su quei monti.
Un giorno eravamo in una gola non tanto stretta e sparammo contemporaneamente con tre mitra. I cani con la slitta scapparono a gambe levate verso la fine della gola, non si capiva del perché. Tante volte avevamo sparato stando vicino ai cani e non si erano mai mossi. Da un fianco del monte si staccò un enorme valanga. A noi no ci colpì, ma arrivò molto vicino a noi. Appena ci riunimmo alla slitta, il padrone dei cani ci spiegò del perché erano scappati. I cani intuiscono quando sono vicini ad un pericolo o lo prevedono.
Il freddo si faceva più intenso e il ghiaccio in mare superava i 10 cm.
Roma ci ordinò di rientrare a La Spezia. Partimmo una mattina all’alba. Tutto il giorno navigammo piano per non danneggiare le strutture esterne del battello.
Verso sera in mare non vi erano in mare aperto non vi era più ghiaccio e così riprendemmo la navigazione normale fino a La Spezia.
Da Napoli facemmo ancora 2 o 3 missioni con il Battello con esiti negativi.
Mio padre era stato promosso da capostazione di prima Classe a Principale e dalla Stazione di Castelfiorentino  fu trasferito a Campiglia Marittima stazione più importante come traffico,  perché aveva la deviazione per Piombino dove ci sono le acciaierie ILVA  e porto per il collegamento  all'isola D’Elba.
Lo Jalea da Napoli fu rimandato a La Spezia sede del Comando Alto Tirreno.
A  La Spezia solito tran tran.
In sottordine a me, avevo un elettricista di La Spezia, ed era fidanzato, così gli  chiesi se mi faceva conoscere qualche ragazza. La sua ragazza aveva due sorelle che facevano le pettinatrici, un giorno  me le presentò. Una era già fidanzata mentre l’altra era libera, così cominciai  a frequentarla. Era carina e molto elegante, ma a Spezia era difficile trovare e frequentare una ragazza. Ma per sua in interposizione anche presso la famiglia, dicendogli che ero figlio di un capo stazione e che presto sarei stato promosso 2° Capo ossia un Sottufficiale,( mi mancavano 2 anni alla promozione) mi fidanzai ufficialmente.  Si chiamava Elda. I giorni passavano, andavo, o al mare, o al cinema e al teatro. Cominciai un  po’  a riflettere e capivo che non era un tipo per me. Le piaceva il lusso, mi portava in locali frequentati da gerarchi del fascismo, da signore eleganti,  ed era anche un poco spendacciona, ciò mi dava un pò di pensiero. Venne a Campiglia per conoscere i miei genitori, con l'occasione  le presentai una signorina che abitava vicino casa mia e delle sue amiche che abitavano nei paraggi della stazione. Il tempo passava ed lo ero sempre più preoccupato e non trovavo un appiglio per sciogliere il fidanzamento.
La vita di bordo mi pesava sempre di più rispetto a prima. Uscite in mare ogni giorno, spesso cento ore d'immersione sul fondo (due giorni).  Così decisi di non fare la domanda per rimanere nella Regia Marina. I miei genitori furono molto contrariati che lasciassi la Marina. Era un periodo di calma apparente, dico apparente, perché la Germania aveva invaso l'Austria.  Ma ormai avevo deciso.  Venne la smobilitazione e in data 7/01/1938 fui congedato.
La mia fidanzata aveva intuito che mi volevo allontanare da lei, così mi voleva imporre il matrimonio a breve scadenza. lo in quel periodo ero a carico dei miei genitori e non potevano sostenere le spese di un matrimonio, essendo io disoccupato. Di ciò volli farlo presente ai genitori di lei andando a trovarli a La Spezia. Anche loro capirono quale era  la mia situazione e così cercarono di convincere la figlia. La settimana seguente ritornai a La Spezia per sentire se aveva cambiato opinione, ma fu irremovibile, o il matrimonio subito o ci lasciavamo. Io colsi la palla al balzo e in presenza dei suo genitori troncammo il fidanzamento. 
Avevo stretto delle amicizie maschili a Venturina, nei giorni festivi andavamo ha ballare a Piombino, Suvereto, Follonica, San Vincenzo. Avevo la moto e così potevo andare dove più mi piaceva.
Mio Padre conosceva il Direttore delle Acciaierie "ILVA", e dopo un colloquio fui assunto come elettricista. Fui destinato alla manutenzione dei contattori del treno 600 e delle gru a carro ponte che levavano le billette infuocate dal forno e le portavano al treno 1000, da dove venivano laminate le rotaie per le F.S.. I giorni passavano ed io ora guadagnavo un buon stipendio ed avevo parecchie tempo  libero per potermi divertire.
Un giorno mentre ero al lavoro andai in officina per prendere dei contattori, sulle rotaie dell'officina vi era un locomotore nuovo che andava con batterie nei capannoni e con il pantografo nei piazzali a tensione di 500 Volt. Sul locomotore vi era il capo reparto, l'Ingegnere e il nostro capo squadra e guardavano le batterie del locomotore, salii sul locomotore, parlavano fra di loro delle batterie che si scaricavano troppo in fretta rispetto alle istruzioni della Marelli  (casa costruttrice delle batterie) . I locomotori erano due entrambi  nuovi, uno funzionava regolarmente mentre all’altro le batterie si scaricavano subito anche se fermo. Guai del genere  anche a bordo dei sommergibili erano capitati con batterie nuove e dipende dai distanziatori, tra le piastre degli elettrodi, non messi o messi male, per cui le piastre al piombo andavano in corto circuito. Così rivoltomi all’ingegnere gli esposi che probabilmente dipendeva dai distanziatori. Il capo squadra mi redarguì e mi fece allontanare in malo modo . Io zitto, zitto me ne andai via. Il giorno dopo sul locomotore vi era uno della Marelli io passai di li zitto senza fermarmi. Il giorno dopo fui chiamato in ufficio dell’ingegnere e dal capo reparto per un colloquio. L’ingegnere mi domandò come mai io supponevo che il guaio delle batterie poteva essere la mancanza dei distanziatori. Feci presente che ero stato imbarcato su alcuni sommergibili e che nelle batterie nuove era capitato  anche a bordo da noi. L'ingegnere mi disse che anche il montatore della Marelli aveva fatto la stessa ipotesi fatta da me. Da quel giorno fui destinato alla manutenzione dei due locomotori.
Fuori la stazione di Campiglia c'era un ristorante e albergo gestito da un giovanotto anziano celibe, dalla sua sorella nubile, dalla cognata vedova del fratello dei due in più vivevano con loro anche i genitori molto anziani.
La cognata vedova, aveva due figlie più un'altra di età fra le due che stava da una zia a Scarlino.  La più grande delle due aveva 3 o 4 anni meno di me, era molto carina e faceva la sarta. La conobbi perché frequentavo spesso il loro Bar. Avevo già 25 anni ed era l'ora che pensassi a crearmi una famiglia, andavo a ballare qua e la, ragazze ne avevo conosciute molte, presi così una decisione. Cominciai a frequentare  più assiduamente il Bar dell’albergo  cosi avevo più  frequenti incontri con Danila. Così si chiama la ragazza che abitava li. Le proposi di fidanzarsi con me ed accettò.
Quando la proposta la feci alla famiglia di lei, lo zio Danilo la zia Clara e i nonni furono contenti, perche conoscevano bene i miei genitori.
La mamma di Danila, Annina era reticente, perché mi vedeva andare via con la moto e volte non solo. Per intromissione dei miei genitori presso la mamma, al fine acconsentì.
Andammo alcune volte con i familiari di lei e i miei genitori  veglioni, tutti in abito da sera. L'estate andavamo al mare a San Vincenzo con la moto, io Danila e la Zia. Il tempo trascorreva tranquillo fra il lavoro e la compagnia di Danila.
Un giorno mi arrivò una lettera per  presentarmi alla Capitaneria di Porto di Livorno, perché mi era stata concessa la Croce di Guerra al Valor Militare ed altri documenti per la Missione con il Sommergibile Jalea.  Ci fu una cerimonia solenne come si usa  in certe circostanze. ( Conservo ancora la foto fatta in coperta del battello appena rientrati dalla missione ed io ho mano e braccio fasciato,  barba lunga, capelli incolti e sporchi perché a bordo c’era solo l'acqua per bere, sono in compagnia di un S.Capo silurista e un S.Capo motorista, sullo sfondo la plancia dello Jalea.) Eravamo nel piazzale antistante la capitaneria assieme ad altri.  Ammiraglio (C.P) nell’appuntarmi la decorazione sul bavero della giacca si congratulò con me, la tromba suonò  l'attenti. I documenti che mi dettero erano gli attestati della Croce di Guerra al Valor Militare, la croce al merito Italiana, la Croce al merito di Guerra Spagnola, la medaglia dei volontari spagnoli e la Campagna Spagnola. Il lavoro procedeva bene, lo stipendio era sufficiente per poter mantenere una famiglia; con la fidanzata tutto procedeva a gonfie vele.
Il I/04/1940, dal Ministero della Marina, mi fu comunicato, che per meriti ero stato promosso 2° Capo Elettricista C.G. della riserva.
I tempi promettevano cose poco buone, in Europa, la Germania aveva dichiarato guerra alla Francia, l'Italia che era alleata alla Germania non si era ancora mossa, ma i momenti erano critici.
Il 5 Giugno 1940 fui richiamato alle armi, partii per la base navale di Taranto. Fui destinato a Maristarsen  (Gruppo Somm.) come riservisti  eravamo destinati per i lavori dei sommergibili che rientravano dalle missioni con avarie. Eravamo entrati in guerra anche noi a fianco della Germania. Così cominciarono le prime perdite di battelli che non rientravano più dalle missioni.
Un giorno il Comandante del Distaccamento, mi chiamò a rapporto nel suo ufficio, era un Capitano di Fregata, toscano di Livorno. La prima cosa che mi chiese se avevo l'auto, gli risposi di no, ma che avevo la patente di guida presa nel 1936 a Taranto, mi disse inoltre “ti propongo,  se vuoi andare a Punta Penna come Capo Carico dei depositi di Nafta al posto del Maresciallo che sarà trasferito”.  Punta Penna é un promontorio, dipendente da Buffoluto  deposito di proiettili di tutti i calibri,  più  siluri vari. Io accettai e andai subito a prendere le consegne dei serbatoi che contenevano nafta di vari tipi, benzina e nafta leggera per motori e altro materiale vario.
A Punta Penna vi era un bel fabbricato, dove a pianterreno vi erano le pompe e altri macchinari, al piano superiore vi erano 2 vasti appartamenti vuoti , sul mare un bel pontile fatto a  elle  rovesciato dove attraccavano Caccia Torpediniere e bettoline a rifornirsi di nafta. Con una bella  scalinata si arrivava ad un pianoro di campi e vigne non più coltivati perché vi erano 10 grossi depositi che contenevano vari tipi nafta e benzina. Avevo alle mie dipendenze 2 sottocapi e 8 marinai più due civili per le pompe che venivano ogni giorno dall’arsenale (arsenalotti) e ripartivano nel pomeriggio con una motobarca che li riportava in arsenale. I marinai mangiavano e dormivano a Punta Penna.
Tutti i giorni veniva la ricognizione nemica per fotografare tutta la baia la contraerea sparava. Al  di fuori  di queste sparatorie la vita era tranquilla, mentre la guerra infuriava sempre di più sia in mare che in Africa.
Non sapendo cosa mi riservava il domani, scrissi ai miei genitori e a Danila che preparassero tutti i documenti per sposare. Mi detti da fare per cercare un appartamentino, lo trovai in centro di Taranto, era ammobiliato e lo affittai.
Fissammo la data per  il matrimonio per la fine di Agosto. Presi la licenza matrimoniale e partii per Campiglia.
Il I Settembre 1940 ci sposammo.
Fu un bella cerimonia in Chiesa. Io in abito da sera,  Danila aveva un bell'abito da sposa, tanti amici e parenti di Danila e miei. Nel Ristorante di Zio Danilo fu fatto il pranzo,  ospiti d'onore il parroco che ci aveva sposato, qualche gerarca del fascio locale e il capo della Polizia Ferroviaria.
In serata partimmo per il viaggio di nozze. Passammo la prima notte a Livorno "all'Hotel Giappone”.  La mattina seguente andammo a Montenero per una visita al Santuario. Verso le ore 11 dalla stazione di Livorno prendemmo un direttissimo per Roma.  A Campiglia ad aspettare il treno c’ erano tutti i nostri Parenti, ci salutarono, ci dettero le nostre valigie e ripartimmo per  Roma. Avevamo prenotato il pranzo nella vettura ristorante,  così mangiammo durante il viaggio.  Appena arrivati, prenotammo una camera nelle vicinanze della stazione Termini, così per tre giorni visitammo, tutte o quasi, le bellezze di Roma, S.Pietro,  il Colosseo, l’altare della Patria, il Campidoglio. La sera andammo in alcuni locali notturni.
Il 4° giorno partimmo per Napoli dove ci trattenemmo altri 3 giorni. Eravamo in un albergo nei pressi della stazione centrale. Girammo in lungo e largo Napoli, Posillipo  e tutti i punti più belli, alcuni ristoranti e locali che conoscevo da quando nel 1938 ero di base a Napoli con il Sommergibile Jalea.
Dopo 7 giorni di svaghi, partimmo per Taranto.  All’arrivo andammo nell'appartamento  che avevo preparato, io ripresi il tran tran, Punta Penna e casa.
I primi tempi pranzavamo e cenavamo fuori, anche perché  Danila  per fare la spesa non capiva il dialetto tarantino andando al mercato. Avevo un marinaio che abitava  in Taranto Vecchia, così l'autorizzai  a pernottare a casa così prima di venire al servizio a Punta Penna, passava da Danila e andavano a fare la spesa assieme e facendole da interprete, poi veniva a Punta Penna con la barca a motore che gli mandavo. Il rischio era forte per me, se gli fosse capitato qualcosa di grave io avrei passato un guaio molto serio.
Il primo giorno che Danila  decise di preparare il pranzo a casa, quando arrivai a casa, ero in divisa estiva, (cioè  giacca e pantaloni bianchi) entro e trovo che la casa era tutta piena di fumo e  Danila che pelava le patate piangendo. A vere questa scenetta, pensavo che il  pianto  dipendesse da un po’  di  nostalgia essendo cosi lontana dalla sua famiglia.
Piangendo mi disse  che non era riuscita ad accendere il fuoco a carbone “ vedi che moglie ai preso".  I fornelli a Taranto hanno una ventola nel tiraggio, che va aperta prima di accendere il fuoco. Mi tolsi la giacca bianca, aprii il tiraggio e accesi i fornelli. Dopo questa cosa incresciosa tutto filava bene, la sera andavamo al cinema o al varietà, vedemmo le compagnie di Fanfulla, Macario ed altre ancora che a quei tempi era in voga.
Un giorno Danila mi chiese di venire a Punta Penna con me, la portai in un punto fuori della zona militare, ci imbarcammo e cosi arrivammo a Punte Penna  qui  passo la giornata. Rimase entusiasta del posto e della casa, dal pontile c' era  un bella vista. Da sinistra l'idroscalo poi l’arsenale con sullo sfondo Taranto .Volgendosi vero  destra si vedeva  il ponte girevole, Taranto Vecchia,  girandosi ancora i cantieri navali ora acciaierie Ilva, e tutti i giardini di cozze e allevamenti di ostriche.  Andai dal Comandante di Buffoluto  C.V. Mascherpa, che mi autorizzò a far circolare Danila per tutte le zone militari.
Facemmo il trasloco così disdissi l'appartamento che avevo affittato, anche Danila fu aggregata alla  mensa sottufficiali con la modica spesa di Lire 5,50, pranzo, cena e colazione. Il pontile era vicinissimo ai giardini dove coltivavano i muscoli e le  ostriche. Conoscevo il capo quel giardino, perché molte volte avevano bisogno di venire  a terra per raccogliere pezzi di tavole e altro legname che veniva spiaggiato. Loro a terra non potevano metterci piede perché era zona militare, solo con il mio permesso e con la presenza di un marinaio, potevano raccogliere quel legname. Così noi avevamo sotto il pontile  un corda di muscoli e quando si chiedevano ci portavano le ostriche. Molte volte con dei rampini che ci avevano dato, con Danila in barca ce le pescavamo da soli.
Dai  marinai che erano alle mie  dipendenze seppi perché il mio predecessore l'avevano allontanato da Punta Penna, lui aveva la macchina cosi faceva il pieno, usciva da Buffoluto, faceva la strada che costeggia i cantieri Tosi, la stazione F.S.,  entrava in Taranto Vecchia  vendeva la benzina, poi rientrava. Questa storia durava già da tempo.
Fu  una spiata a denuncialo, poteva andare sotto processo ma il comandante gli volle bene, così fu soltanto allontanato.
All'ora era in voga la canzone "Se potessi avere mille lire al mese" io ne prendevo oltre 1300, ci sentivamo dei signori. I marinai del mio distaccamento  facevano a gara per lavare i panni e fare altre faccende domestiche a Danila, doveva fare attenzione per far fare queste cose, quando a uno quando ad un altro, perché se la prendevano a male.
Di  giorno ero il loro Capo e ubbidivano tutti indistintamente, la sera li invitavo su in casa, Danila ci faceva un buon caffè, si ascoltava la Radio o facevamo una partita a carte specialmente quando  ero di turno di guardia.
Fra un allarme e un altro, specie di notte, le cose andavano abbastanza bene. Arrivammo al 12 Novembre 1940, notte fatidica per la nostra Marina. I giorni precedenti la ricognizione nemica aveva aumentato le, ricognizioni su Taranto. Tuttavia la squadra era rimasta in Mar Grande. Poco prima delle ore 22, si cominciò a sentire grandi rumori di aerei, le sirene dettero l'allarme, i proiettori illuminavano il cielo con grandi fasci luminosi, la contraerea cominciò a sparare, le mitragliere sparavano con proiettili traccianti, i bengala lanciati dagli aerei illuminavano tutto. Io Danila e tutti i Marinai si corse nel rifugio, una galleria nel fianco della collina di tufo.
Il cielo illuminato a giorno dai bengala, si sentivano grandi esplosioni, grandi bagliori,fra i proiettili traccianti e i bengala uniti alle esplosioni  era un grande spettacolo, non certo per coloro che ci lasciavano la vita.  Uscimmo dal rifugio con Danila per vedere quello spettacolo . Alcuni proiettili ricadevano giù, parte in mare, parte sul pontile battendo più volte sulle lamiere che proteggevano le tubature piene di nafta. Feci rientrare tutti nel rifugio. Io rimasi, dato che dalla parte del Mar Grande, si vedevano grandi incendi. Gli aerei siluranti passavano bassi, temevo che lanciassero qualche bomba in mezzo ai serbatoi di carburante.
Tutto ciò durò circa un'ora, poi tornò la calma, calma apparenta perché gli incendi divampavano ancora.
Ritornata la calma, rientrammo tutti negli alloggi. Mi chiamò il comandante di Buffoluto C. V. Mscherpa, che conoscevo personalmente. Mi chiese se tutto fosse normale a Punta Penna, dicendomi che mi armassi e che con quattro marinai armati facessi un'ispezione ai depositi per vedere se vi erano stati danni e di stare molto attenti avessero lanciato dei paracadutisti. Io eseguii l'ordine. Non trovammo nessuna anomalia ne tanto meno paracadutisti.
Rientrammo e andammo a dormire, ma ogni  tanto suonava l'allarme e tutti andavamo nel rifugio.
Il giorno dopo con Danila andammo in città per vedere i guai che avevano combinato gli inglesi.  Arrivati sul lungomare prospiciente il Mar Grande,  si vide uno spettacolo raccapricciante. Una corrazzata semi affondata con i cannoni e la plancia fuori dall'acqua.
Altre navi colpite pure loro da siluri tutte sbandate e semi affondate, pure la Littorio con la prua semi sommersa per due siluri scoppiati a prua. I giorni seguenti passarono tranquilli, l'arsenale era in pieno fermento per poter rimarginare le ferite alla nostra flotta. Però ogni notte vi erano due o tre allarmi e  si correva nel rifugio. Una notte da tanto che eravamo stanchi, non sentimmo un allarme e rimanemmo a letto. Il giorno dopo i marinai mi chiesero come mai non eravamo scesi nel rifugio. Io trovai una banale scusa. Dopo quella tremenda notte del 12 Novembre, attorno ai depositi ci fu piazzata una batteria contraerea da 76 mm  con 6 pezzi . Ogni allarme anche per ricognitori entravano in azione facendo un baccano tremendo. Il comandante della batteria era un Capitano d’Artiglieria, visto che un appartamento era vuoto fece venire la moglie e le 2 figlie ad abitare a Punta Penna. La figlia più piccola, aveva circa 5 o 6 anni, si, affezionò tanto a Danila stando così molto tempo con noi, tanto che spesso veniva a dormire nel letto con noi. Cosi cominciarono i guai per noi. Il Comandante e la famiglia erano di origine napoletana.  Dopo qualche settimana che la bambina dormiva fra me e Danila, cominciammo a sentire un prurito in testa, ci accorgemmo così di aver preso i pidocchi.
Avvisammo la mamma della bambina. Dopo aver preso delle lozioni per i capelli tutto tornò normale. Noi nei pomeriggi e la sera continuammo ad andare in città. Venne Natale e lo passammo da soli a Taranto. Durante il pranzo di Natale mangiammo delle ostriche enormi come quelle che  avevano mandato a Mussolini, offerteci dai dirigenti degli allevamenti. Passammo l'estate del 1941 sempre a Taranto.
Il 1/10/1941, mi venne il trasferimento per andare a la Spezia alle scuole di S. Bartolomeo, per un corso di aggiornamento sulle girobussole. Partimmo da Taranto, portandoci dietro un cucciolo di cane lupo. Arrivammo a Campiglia,  Danila rimase da sua madre e zii. Io dopo aver salutato i miei genitori, proseguii per la Spezia.
Capivo che finito il corso di aggiornamento, per me mi aspettava l'imbarco. Mentre  ero al corso capitò un caso banale. All'Ammiraglio che comandava il distaccamento M.M. di Piombino  e dell'Isola D'Elba , si rivolse a mio padre  che era capo stazione titolare di Campiglia perché aveva bisogno di mettersi in contatto con l'Ospedale di Caserta.
In suddetto Ospedale erano state ricoverate la moglie e la figlia leggermente ferite in un incidente ferroviario. I telefoni in quei momenti non funzionavano bene causa della guerra. Mio padre, attraverso le linee F.S.  riuscì a mettersi in comunicazione con Caserta F.S. e Caserta con l'Ospedale. Più volte fu fatto questo allacciamento e così l'Ammiraglio poté parlare con la moglie e la figlia. Una volta ristabilite dalle leggere ferite, l'Ammiraglio per ragioni di servizio non poté andare a riprenderle. Così mio padre si offrì di andarle a riprenderle a Caserta. Al ritorno queste signore, trovarono l'ammiraglio ad  aspettarle a Campiglia.  L'Ammiraglio si complimentò con mio padre, dicendogli, che di qualsiasi cosa di sua competenza avesse avuto bisogno, lui l'avrebbe assecondato. Mio padre prese la palla al balzo. Così gli parlò di me, che ero a La Spezia ad un corso di aggiornamento e se era possibile farmi  venire a Piombino. L’Ammiraglio gli promise di accontentarlo. Finito il corso dopo un mese ci chiamarono per darei la nuova destinazione. Quelli che chiamarono prima di me, furono tutti imbarcati. Io mi aspettavo un imbarco su di un Sommergibile, invece quando lessero il mio nome, la destinazione fu il Comando DICAT Piombino.
Rimasi di stucco per questa destinazione, ero impaziente di dirlo a Danila e ai miei. Io di quanto era capitato a mio padre,nel mese trascorso al corso non ne sapevo niente, e i miei non  mi avevano mai detto niente, perché se le cose non fossero andate come promesso, ne avrei provato una delusione.
Sistematomi a Piombino nel Castello, mi misi in cerca di un appartamento, lo trovai in centro. Danila ed il cane vennero ad abitare a Piombino, la mia vita era, fare la guardia al Castello  quando ero di turno, poi andavo a casa e uscivamo con Danila a passeggio. La vita trascorreva tranquilla niente più allarmi come a Taranto.Non  passava mese che non mi arrivasse un ordine d'imbarco. L'Ammiraglio trovava sempre scuse per non mollarmi.
Speravamo che la guerra finisse presto, così pensammo di far crescere la famiglia.
Danila rimase in stato interessante. Tutti felici e contenti, sia noi che mio padre,mia madre e mio fratello, la suocera Annina e gli zii.
Un brutto giorno l'Ammiraglio mi chiamò dicendomi che era dovevo essere   trasferito per andare in Arsenale a Venezia, già che non era un imbarco, mi consigliò di partire.
Danila ed il cane andarono a Campiglia ospiti di mia suocera e degli zii, in attesa di nuovi eventi. A Venezia trovai parecchi pari grado in attesa di nuove destinazioni, passai tutta l'estate a Venezia, ogni tanto venivo a Campiglia per stare con Danila che cominciava ad avere un po’ di pancetta.
Venne il fatidico giorno, dovevo raggiungere Lero (mare Egeo),per l’imbarco sul Somm. Sciré che era di base a Lero. Una mattina, armi e bagagli ci portarono alla stazione di Venezia S.Lucia ci attendeva un treno viaggiatori lunghissimo, ufficiali e sottufficiali  e marinai, mi toccò un posto in uno scompartimento di 2° classe,  il treno partì semi vuoto.
A Mestre montarono in treno, ufficiali sottufficiali dei carabinieri, finanza, aeronautica ed altre armi dell'esercito e tanti militari di svariate armi. La sera partimmo, destinazione Atene (Grecia). Attraversammo tutta la  Jugoslavia, camminavamo lungo il fiume Sava.
Dopo Lubiana fino a Zagabria, poi lungo la Drina. Molte volte ci fermavano in piccole stazioni e ci lasciandoci senza locomotiva perché serviva ai Tedeschi per loro treni militari.
Spesso lungo la ferrovia si vedevano carri rovesciati lungo la scarpata. Erano stati i partigiani che avevano fatto deragliare quei convogli, noi temevamo potesse  capitare anche a noi, perciò in specie durante la notte vegliavamo armati . Lasciammo la Jugoslavia ed entrammo in Grecia. Passammo le Termopoli,  lasciandoci alle spalle Larissa, e dopo 13 notti e 12 giorni arrivammo ad Atene, poi al Pireo.
Al Pireo ufficiali e sottufficiali fummo alloggiati su un transatlantico greco requisito. Fui destinato  all'ufficio Cifra, in attesa che un convoglio per Lero e Rodi.
Giravo molto sia al Pireo che ad Atene, per vedere le sue bellezze e i loro costumi. Al Pireo vicino al porto, vi era una bellissima chiesa Ortodossa.  Ad Atene visitai il Partenone sull'Acropoli, in città vi erano un'infinità di bar e locali notturni. Con poche lire cambiate in dracme si passava le giornate abbastanza bene. Sia ad Atene che al Pireo, la gente locale ci accoglieva bene, mentre i tedeschi erano odiati perché molto duri con la popolazione civile. Dopo 2 mesi di vita tranquilla, venne il fatidico giorno.  Imbarcai su una nave del convoglio e 11 Settembre I942  arrivai a Lero.
Mi presentai al Comando sommergibili e mi chiesero come mai ero arrivato con questo ritardo  e che un altro sottufficiale C.G. di un altro battello di base a Lero era partito al posto mio sul Somm."Scirè''', che purtroppo era stato affondato al largo di Haifa con 8 incursori e 4 maiali (siluri a lenta corsa). La guerra é guerra,  si vede che il mio destino voleva  così.
Mi mandarono a sostituire un Capo di 2° (maresciallo) che doveva rientrare in Italia per licenza, era il direttore della centrale carica batterie per i sommergibili. Mi presentai, presi in consegna la centrale ed i vari materiali. Conobbi i marinai passati alle mie dipendenze  erano addetti al trasporto cavi per collegare i sommergibili 'alla banchina con la centrale.
La vita era molto dura, un giorno si e un giorno no, vi erano bombardamenti, gettavano anche spezzoni che incendiavano tutto dove scoppiavano. Eravamo sempre sotto pressione, con la vita appesa ad un filo.
Le cose volgeva sempre al peggio,si erano già perse le Colonie ed io pensavo se avessi mai potuto conoscere e mio figlio che stava per nascere.
I giorni passavano lenti, andavamo al cinema a Porto Lago che era al di là della a baia ed era di fronte all'arsenale, oppure su a Lero che era a circa 2 Km. da Porto Lago su di una collina.
Arrivammo a novembre, ebbi un telegramma, che mi comunicava, che il 3 Novembre era nato Roberto e che sia Danila che Roberto godevano ottima salute. La gioia fu immensa  perché ero diventato Padre. Contemporaneamente mi assillava il pensiero se l'avrei mai conosciuto  ???
Dietro le colline dell'Arsenale che erano alle nostre spalle, erano tutte piene di gallerie, vi erano officine varie, ed in altre depositi di munizioni.   Al di la  delle colline vi era una baia non tanto grande che si chiamava, Zero Campo, con una spiaggia tutta sassi e scogli. Era l’unica spiaggia dove il nemico poteva sbarcare.  Ai lati della baia a circa 20 metri dal pelo dell'acqua, vi erano due postazioni di artiglieria, navale e contraerea con potenti proiettori che potevano illuminare tutta la spiaggia.  A circa 20 metri dal bagnasciuga, per tutta la lunghezza della spiaggia vi era una trincea coperta con feritoie verso il mare. Di notte questa trincea era presieduta da militari delle varie armi di stanza sull'isola, compresa la marina. Dietro la trincea  c’era una zona tutta minata, dietro ancora, due fossati anti carro. Verso il 20 di Novembre, quella notte il turno a Zero Campo  toccò a me, con altri sott'ufficiali, e alcuni ufficiali e plotoni di marinai. La notte sembrava tranquilla, giocavamo a carte, oltre alle vedette fisse che scrutavano nella notte dalle feritoie, ogni tanto qualcuno usciva fuori all'aperto ben armato per prendere un po’ d'aria e fare un giro di perlustrazione in spiaggia. Io ero nervoso, perché la domenica prima vi era stato il Battesimo di Roberto. Proprio quella mattina, mentre andavamo a pranzo ci fu un tremendo bombardamento, mi trovavo proprio in mezzo al piazzale dove alla banchina vi erano due caccia torpedinieri e un sommergibile attraccati; alzai gli occhi al cielo e vidi le bombe venire giù a grappoli da degli aerei inglesi. Ero assieme ad un sergente, ci buttammo a terra sdraiati per evitare lo spostamento d'aria che seguiva l'esplosione delle bombe. Le bombe esplodevano e a noi venivano addosso sassi e terra. Tornata la calma, intorno a noi vidi un gran macello, feriti che si lamentavano e morti sparsi qua e la.
Ad un caccia, che era a fianco del caccia torpediniere Lupo, una bomba era entrata nel fumaiolo esplodendo,  fece una carneficina di marinai, si vedevano tronconi umani sparsi qua e la, braccia, gambe recise dal tronco. Mi alzai e vidi che ero tutto intero e non perdevo sangue da nessuna parte; aiutai ad alzare il sergente che era con me, aveva una profonda ferita alla mano sinistra. Corsi dove erano ormeggiati i MAS ed altri motoscafi già con altri feriti a bordo. Partimmo veloci per Porto Lago dove c’ era l'ospedale militare.
Consegnai il ferito tutto sanguinante e rientrai subito in arsenale con un motoscafo, per accertarmi se la centrale di carica avesse subito danni, i miei marinai erano tutti illesi.
La sera quando andai a letto mi accorsi che sopra il ginocchio destro avevo una goccia di sangue coagulato e se premevo, sentivo dolore forse era  un piccola scheggia. La mattina seguente ritornai in ospedale per fare una visita al sergente. Andai da un medico e gli feci vedere dove sentivo bucare. Mi disse che non era niente di grave, sarà una piccola scheggia.  Con un batuffolo di cotone imbevuto in alcol mi ci fregò sopra facendomi vedere le stelle, con un bisturi mi fece un taglietto e cosi venne fuori un piccolo frammento metallico non più grosso di una capocchia di spillo. Mi medicò e ci mise un cerotto dicendomi:  non ti faccio una puntura antitetanica perché è troppo tardi, non ti farebbe niente, spera non ti venga il tetano se no in Italia non ci ritorni più.
Ecco perché quella notte ero più nervoso del solito, dopo quanto mi aveva detto il medico, così fra i bombardamenti e la paura del tetano, sentivo di aver bisogno di un poco d'aria fresca e fumare una sigaretta.
Avvisai un collega che uscivo un momento e non mi sarei allontanato.
Stetti un po’ a meditare, mentre mi accingevo ha prendere una sigaretta, mi sembrò di sentire come se qualcuno piano camminasse sulla ghiaia, non accesi la sigaretta e rimasi in ascolto, sentii ancora quel rumore, ma forse poteva essere la risacca del mare che muoveva i sassi. Però nel dubbio rientrai, avvisai tutti mettendoci in allarme. Tutti si armarono di mitra e andammo alle  feritoie, per telefono avvisammo le batterie che stessero pronte ad accendere i proiettori. Era più dell’ una del mattino e tutti nelle batterie  dormivano all’infuori della guardia. Decidemmo che io armato, con due marinai pure loro armati, si uscisse fuori mettendoci al riparo degli scogli. Presi anche una torcia per poter illuminare la zona e silenziosamente uscimmo. Era un buio pesto, appena tutti eravamo, al riparo e nel silenzio, io sentii di nuovo quel rumore. Stando dietro lo scoglio detti il "chi va là" e accesi la torcia nella direzione dei rumori, senza che io vedessi perché ero chinato. Dal mare partirono raffiche di mitra  contro il mio scoglio, i marinai che erano dietro le feritoie, aprirono il fuoco indirizzandolo contro le fiammate dei proiettili provenienti dal  mare. Non era passato più di un minuto o poco più che le batterie accendessero i proiettori, i fasci di luce furono  indirizzati da  dove erano venute  le sparatorie. Dopo poco dalla battigia  cessarono di sparare casi si fece noi tutti. La spiaggia era tutta illuminata, sdraiati sulla spiaggia vi erano una decina di uomini. Mi accorsi che tutti avevano delle tute mimetiche Tedesche.  Mi  sentii gelare, avevamo sparato contro gli alleati tedeschi. Però riflettei subito, perché al mio "chi va la “ hanno sparato per primi? Perché non si sono fatti riconoscere? E cosa facevano in quel luogo? Non era passato nemmeno un quarto d'ora, che sul posto arrivarono ufficiali di vario grado e arma, perfino un colonnello dell' aviazione, arrivò anche l'ammiraglio Mascherpa  che avevo conosciuto da Capitano di Vascello a Taranto, comandava il distaccamento di Buffoluto, quando io ero capo carico dei depositi di nafta. Ora era Comandante la Base Navale di Lero. Intanto i marinai erano intenti a disarmare tutti gli sbarcati giunti con dei battelli pneumatici. Uno era già morto, due erano feriti, moriranno in seguito all'ospedale le per le ferite riportate.
Passato il primo momento li interrogammo, il loro linguaggio non aveva niente di tedesco, spogliandoli delle tute, avevano la divisa dell'esercito inglese. I sette rimasti furono presi in consegna dai carabinieri e in seguito trasferiti a Rodi, dove un tribunale misto Italo-Tedesco l'avrebbe giudicati.
Fra un bombardamento e l'altro il tempo passava. Riguardo l'andamento della guerra sempre peggio per noi. Eravamo confinati in un isola  senza speranze o quasi.  Avevamo perso parecchi sommergibili.  A  Matapan in Grecia avevamo perso tre incrociatori, uno dei quali il Fiume dove ero stato imbarcato e due caccia. Navi di vario tonnellaggio e mole le perdevamo per portare rinforzi, munizionamento in Africa.
Passò il Natale del 1942. Nei primi mesi del 1943, fui chiamato dal Tribunale a Rodi come testimone oculare, per il processo ai 7 inglesi che furono fatti prigionieri da noi.
Andare per mare con delle carrette non era sicuro, però arrivammo a Rodi. Il processo fu lungo, noi presenti allo sbarco e cattura fummo più volte ascoltati. Il processo durò oltre un mese. I giudici Italiani erano propensi a condannarli a molti anni di carcere, ma i giudici tedeschi ligi al trattato internazionale, che in tempo di guerra dice che chi cerca di entrare in territorio nemico indossando uniformi non proprie commette un reato passibile  con la pena di morte, insisterono e così  vennero condannati alla pena di morte tramite fucilazione. Due o tre giorni dopo, una mattina nel piazzale interno del Castelli di Rodi, un plotone composto da soldati tedeschi e milizia fascista,  furono fucilati i 7 inglesi.
Gironzolando per Rodi, con una popolazione mista, fra Turchi, Greci e Italiani, era molto folcloristico  da ogni parte si vedevano tantissime rose. In una gioielleria del centro acquistai una croce d'argento tutta lavorata, con al centro una piccola rosa in miniatura d'oro era per in regalo a Danila. Dietro avevo fatto incidere:  Renato a Danila.
Rientrammo a Lero, il pensiero era sempre il solito,poter ritornare, in Italia, questa speranza si affievoliva sempre di più.
Un giorno fui chiamato per presentarmi presso il Comando in Capo. L' Ammiraglio Mascherpa mi comunico: che in merito all'Azione di"Xero Campo", contro il commando inglese, portato a buon fine, ci dava una licenza premio a me e a tutti quelli che avevano partecipato all'azione.
Con il primo convoglio utile, imbarcammo su di una carretta, costeggiammo alcune isole sparse per l'Egeo, per timore dei sommergibili  inglesi, e arrivammo al Pireo. Dopo una breve sosta ripartimmo per l'Italia. La sera mentre si attraversava il canale di Corinto, per radio si apprese della caduta di Mussolini.  Arrivammo a Brindisi incolumi, dopo aver navigato a ridosso delle isole Ionie. Presi il primo treno per il Nord che capitò.
Una mattina verso le ore 6 arrivai a Campiglia.
Vi lascio immaginare la contentezza di Danila, mia, dei miei genitori, e dei suoi.
Salimmo in camera, Roberto dormiva e lo lasciammo dormire.
Quando si svegliò mi presentai a lui assieme a tutti gli altri di casa per vedere l'effetto.
Quando mi avvicinai a Roberto, io ero in divisa, scoppiò in un dirotto pianto. Questo fu il primo incontro. Avevo avuto un mese di licenza, dovevo ripartire per Taranto il 10 Settembre 1943 per poi rientrare a Lero. Con i miei genitori, io , Danila e Roberto andammo a salutare la nonna materna a Borgo a Buggiano (il nonno materno era deceduto nel 1940).  Andavamo spesso a Montecatini Terme e per i viali di Montecatini, Roberto fece i primi passi. Il tempo passava veloce e così la licenza stava per finire. Mio fratello Alfredo , faceva il militare in aviazione in un campo vicino ad Alessandria, non potendomi venire a salutarmi, decisi di andare io ad Alessandria. Il giorno 8 mattina partii per Alessandria. Dopo Genova, vedevamo la gente alle stazioni tutte in festa, cosi venimmo a sapere che era stato firmato l'armistizio con l’ America, Inghilterra e Francia.
Arrivato ad Alessandria, cominciammo a vedere i primi sbandamenti dell'esercito Italiano. Militari scappati dai reparti affollavano la stazione, parte in divisa, parte in abiti civili che cercavano di raggiungere le proprie case. Raggiunsi mio fratello, anche in quell'aeroporto vi era una gran confusione. Proposi a mio Fratello di partire subito con me e tornare a casa, lui però volle aspettare qualche giorno per vedere le cose come si mettevano.
Io ripartii subito da Alessandria, ero in divisa con cinturone e pistola. Avevo con me una valigetta, avevo portato qualche cosa a mio fratello ed ora era vuota, ci misi dentro la giacca, il berretto, cinturone e pistola.
A Genova, in stazione c'era il caos, militari di tutte le armi si affollavano per prendere il treno e  poter andare verso Sud, il treno era stracarico. In nottata arrivai a Pisa. Non potemmo proseguire perché oltre Livorno la linea era interrotta. La mattina dopo con un treno via Collesalvetti raggiunsi Cecina e poi Campiglia.
I tedeschi dopo una furibonda battaglia presero Piombino e l'Isola d'Elba.
Cominciarono a partire i primi treni da Piombino carichi di prigionieri, marinai, artiglieri, tutti diretti in Germania. Così decisi di non partire per Taranto.
Così la mia vita da, marinaio fini come sbandato, dopo circa 14 anni da quel lontano 1930 quando indossai la divisa e le Stellette.
Cominciai così una nuova vita, piena di ombre e di speranze.
Finita la guerra, mi trovavo senza lavoro, la moglie e il figlio a carico e senza una casa.
Che fare? Pensai di tornare all’Ilva a Piombino.
Nel 1937  fra le due guerre, di Spagna e quella de 1940, avevo fatto un corso per corrispondenza con le Scuole Riunite di Roma, di Elettrotecnica per Capotecnico, concludendolo lodevolmente.(conservo l'attestato).
Mi rivolsi alla Direzione dell'Ilva, la quale mi riassunse, credevo come elettricista, invece fui assunto come impiegato pesatore. Fui mandato a fare i turni alla pesa di Noemi, di li passavano tutti i materiali via ferrovia, quello era l'unico allacciamento ferroviario fra le F.S e lo Stabilimento.
I tedeschi stavano portando via tutti i materiali che riuscivano a smontare, come motori elettrici e altro materiale. Gli Americani bombardavano spesso, la produzione ed il personale calava sempre di più.
Pensavo, non sono morto a Lero con quei bombardamenti, quasi quotidiani, va a finire che lascio la pelle a casa.
Ci fu un concorso per operaio a gli impianti elettrici delle ferrovie, mio padre mi consigliò di farlo, accettai il consiglio e feci il concorso. Risultai il 2° in tutto il compartimento di Firenze. Fui assunto però come aiuto operaio avventizio a Campiglia.
Lasciai le acciaierie, presi così servizio nella squadra T.E. (Trazione Elettrica) di Campiglia. Così mio padre Titolare di Campiglia, mio Fratello era entrato come guardia merci li a Campiglia, io alla T.E., le famiglie si erano così riunite.
Nella squadra T.E. di cui facevo parte, composta da circa dieci operai erano quasi tutti ex contadini che non volevano più lavorare la terra. Erano stati assunti prima dell'inizio della guerra, perciò come servizio erano più anziani di me. Erano giorni difficili, americani ed inglesi, bombardavano le stazioni più importanti, come Grosseto, Montepescali,  dove vi era la deviazione per Siena, i ponti come quello sull'Ombrone, sul Cornia vicinissimo a Campigla e quello sul fiume Cecina.
Pur toppo noi con il carrello a motore,attrezzato per la riparazione della linea di contatto, si dovevamo correre a Grosseto, Montepescali e Piombino, per riparare la linea elettrica di contatto, perché i pochi treni a trazione elettrica potessero circolare.
Per me la vita era ancora più dura degli altri, poiché loro erano abituati alla pala e piccone. Io avevo 30 anni e non ero abituato a questi lavori di sterro perciò duravo molta più fatica dei miei colleghi.
Gli Americani da sud avanzavano lentamente, i tedeschi erano molto duri con noi considerandoci traditori. I treni con i continui mitragliamenti non viaggiavano quasi più.
Un giorno, arrivò un plotone di tedeschi non ferrovieri, dettero fuoco a tutti i carri in sosta in stazione, poi  se ne andarono. Noi ferrovieri locali, appena i tedeschi se ne andarono andati corremmo con ogni mezzo e spegnerlo  salvando così parecchi carri.
Stavano per arrivare gli americani, tutto era fermo, i treni non circolavano più, per noi era la fine. Mio padre, mia madre, io, Danila e Roberto, sfollammo presso un contadino non tanto distante dalla stazione. La sera era una tristezza, senza luce elettrica si doveva stare al lume di candela.
Gli Americani avevano oltrepassato Follonica, sparavano continuamente verso Piombino e Baratti, dove c'erano delle postazioni tedesche. I proiettili passavano sopra le nostre teste, fischiando.
Passò così il fronte, le ferrovie, erano ferme e sconquassate, così io ero  di nuovo senza lavoro.  Arrivarono gli americani, occuparono tutta la stazione ed gli appartamenti sopra il bar della stazione. Quel mobilio rimasto in casa dai miei genitori fu accantonato in cucina, assieme a casse di biancheria, di regali ricevuti per mio matrimonio,  fra cui il cinturone con mia pistola d'ordinanza e l'elmetto che avevo a Lero.  Di tutto ciò se ne ritrovò poca roba. Ce ne accorgemmo quando gli americani dopo parecchio tempo lasciarono l'appartamento. A niente valsero le nostre lamentele verso il loro Comando. Dietro la stazione vi era un vasto campo d'aviazione mai usato.
Con camion anfibi, gli americani cominciarono a portare materiale di tutte le specie e qualità, dal vettovagliamento, vestiario ed altro, tutto questo materiale imbarcato su navi, veniva scaricato su i camion anfibi presso la spiaggia vicino a Piombino. Fu così accatastato in questo campo d'aviazione. In genere erano tutte casse con razioni per militari, parecchie erano sfasciate nel trasporto. Gli americani cominciarono ad assumere personale civile per lo smistamento di queste casse e la cernita di viveri, sigarette e scatolame.
Il materiale da non poter più adoperare lo buttavano via anche se per noi era usabile.
Anche io fui assunto assieme ad altri ferrovieri. Rimanemmo a fare questo lavoro sino a che gli americani non cominciarono a ripristinare le ferrovie con locomotive a nafta portate dall'America.
C’era da sgombrare tutti i rottami lungo le tratte ferroviarie e nelle stazioni. Vi era da recuperare tutti i rottami di rame, isolatori, rame, sia nella stazione che nelle tratte. Noi cominciammo a recuperare quanto sopra detto. I militari lasciarono libero appartamento di mio padre sopra la stazione e cosi i miei genitori rientrarono nel loro appartamento. Solo allora constatammo la sparizione di tanti oggetti che avevamo accatastato in cucina  mesi prima . Gli  americani  mi assegnarono uno dei due appartamenti sopra il bar. Così finalmente potei mettere su casa con il mobilio. Un giorno partimmo da Campiglia con la motoscala e due carrelli a rimorchio carichi di rottami di fili di rame ed isolatori, come tante altre volte avevamo fatto, con destinazione la sottostazione elettrica di Bolgheri.  Arrivati a San Vincenzo ci dettero l'ordine di proseguire per Bolgheri, giunti al passaggio a livello dopo la stazione , fummo investiti da un grosso camion  americano che ci buttò  fuori dalle rotaie. Io me la cavai con la lussazione della gamba destra, il piede era girato di 90°gradi verso destra, mi andò bene, ci potevo aver lasciato la pelle. Gli altri colleghi se la cavarono con qualche contusione.
Il peggio fui io. Con lo stesso mezzo che ci aveva investito mi portarono all'Ospedale di Campiglia M.ma. Mi addormentarono raddrizzandomi la gamba e rimisero il menisco al suo posto. Quando mi svegliai in corsia, ero tutto ingessato, dal piede sino a metà coscia.
Dopo alcuni giorni fui dimesso e tornai a casa.
Stando in convalescenza potei godermi un poco di più mio figlio.
Nel frattempo si era sposato mio fratello, abitava a Piombino. Cosi fu di mia cognata Orlandina,  sposatasi e con suo marito rimasero come abitazione a Scarlino per motivi di lavoro (era impiegato alla Montecatini).  Rimase così mia  cognata Nila essendosi diplomata  in ostetricia rimase  con sua madre e gli zii.
Il tempo passava, i treni viaggiavano ed il personale militare fu sostituito dal personale F.S.  La tratta Grosseto-Livorno, era troppo lunga e massacrante, troppe ore il personale stava in servizio e così decisero di dividerla, in due parti. Grosseto Campiglia e Livorno Campiglia.
Occorrevano i dormitori sia per i macchinisti, sia per i capi treno sia che per i conduttori. Il sindacato C.G.I.L. che a quei tempi erano molto più duro di oggi, allora si permettevano di battere i pugni sui tavoli dei dirigenti, compreso quello del Capo Compartimento. Così vollero che si rendessero liberi i due appartamenti sopra il bar della stazione. A me fu imposto di andare a coabitare con  mio Padre. (In tempi remoti sopra la stazione erano 2 gli appartamenti). Il Capo Compartimento scrisse una lettera a mio padre, rammaricandosi della situazione  creatasi e che avrebbe provveduto in seguito a una mia sistemazione a Follonica. (Ciò non avvenne mai) Passò ancora molto tempo. Un bel giorno mio padre fu trasferito a Sanremo come titolare di quella Stazione.
Sanremo era una residenza ambita da tanti. Io così rimasi lì  solo, molto mobilio dovetti accatastarlo in un unica stanza. Venne il nuovo titolare, con moglie provenienti da Vezzano Ligure, era capo stazione di prima (con 5 bordi) attendeva la promozione a principale.
Erano iniziati i lavori per la ricostruzione della linea elettrica. Dato che io ero un ex sottufficiale della Marina, avevo fatto le scuole complementari, conoscevo bene il disegno, avevo con il capo reparto una certa  familiarità perche era amico di mio padre, fui distaccato dalla squadra T.E. di Campiglia al reparto I.E. di Livorno. Fui messo come aiuto nei lavori ad un segretario tecnico P.I. Dominici che aveva l’incarico della ricostruzione delle sottostazione  elettrica di Bolgheri, Follonica e Grosseto, oltre alla ricostruzione della linea T.E. da Livorno a Grosseto.  In ogni sottostazione vi era un operaio che seguiva i lavori,  annotando su di un libretto apposito i lavori che ogni giorno venivano eseguiti.  Così valeva anche per la SAI di Milano che aveva preso in appalto la ricostruzione  della linea di contatto.  Anche qui ogni squadra aveva un piantone cosi ripartiti. Uno per la squadra che faceva le buche per i pali o portali, uno per la squadra che faceva il getto dei blocchi dei pali, uno per l'alzamento dei pali e montaggio delle mensole e tiranti, infine un altro  che seguiva il treno per il montaggio degli isolatori, braccetti e poi la stesura della linea di contatto. Io settimanalmente dovevo raccogliere questi libretti , riunendo tutto quanto, giorno per giorno, in un unico libretto, fare i disegni dei blocchi e delle varianti nelle sottostazioni. Tutti i giorni col segretario tecnico vedere se ci fossero delle modifiche da fare.
Tutto procedeva bene ed ero tranquillo e soddisfatto.
Un brutto giorno mi pervenne una brutta comunicazione, dove mi dicevano di lasciare l'appartamento libero, perché non era decoroso che un Capo Stazione Principale coabitasse con un aiuto operaio. Dovevo andare ad abitare in una cantoniera al di la del fiume Cornia. Le case mancavano, ma in quella, nemmeno i cantonieri ci volevano andare ad abitare perché durante l'inverno lo scantinato era sempre allagato e l'alloggio umidissimo, perciò rifiutai.
In seguito mi proposero un appartamento a Campiglia o a Grosseto, erano case che avevano costruito per i ferrovieri di Bolzano e dintorni dopo che quelle zone erano passate alla Jugoslavia. Non erano case ma buchi, tanto che la mia mobilia non ci entrava, anche qui rifiutai. Dopo qualche tempo mi proposero un appartamento ad Incisa Valdarno, era un bel appartamento di 4 vani in un palazzo della T.E. ed accettai. Caricai il mobilio su di un carro ed andai ad Incisa. Però come servizio dovevo ritornare al reparto di Livorno, i lavori ancora non erano terminati, ed era necessario che io continuassi ciò che avevo iniziato.
Al capo tecnico di Incisa gli andò giù male che io avessi occupato quell'appartamento che era stato promesso ad un operaio del posto che viveva in una stalla con moglie e figli, in più gli mancava un operaio per fare i turni in sottostazione. Ma gli ordini sono ordini, tanto più se vengono dal capo Compartimento.
Così fra il capo tecnico e il sindacato tornarono alla carica dal capo compartimento. In seguito mi fu proposto di ritornare in Maremma, a Montepescali  in una palazzina piano terra con 2 appartamenti e vasto orto, che stavano finendo. Io accettai e appena la palazzina fu agibile, caricai di nuovo  la mobilia su di un carro e da Incisa andai a Montepescali.  Il posto era abbastanza carino, attorno vi era parecchia terra, ci feci un bell'orto ed il pollaio. Roberto così poté iniziare la scuola elementare, poco distante dalla nostra abitazione.
I lavori finirono ed i treni cominciarono a circolare a trazione elettrica. Io rientrai definitivamente a Montepescali,  così  passai dalla T.E. a gli A.C. (Apparati Centrali).
Detti tutte le abilitazioni per il blocco automatico, segnali e scambi elettrici.  Da Livorno a Grosseto Montepescali era l'unica  stazione con scambi elettrici.  Il tempo passava e noi tre vivevamo tranquilli.
Il Vescovo di Grosseto, aveva trovato in un domitorio sulle colline antistanti le reliquie di San Guglielmo.  Nella parrocchia di Braccagni, situata vicino a casa nostra,  vi era un altare, sulla sinistra, vuoto. Pregò i preti di trovare un'effige di San Guglielmo.  I preti sapevano che lo a tempo perso pitturavo, si rivolsero a me che gli dipingessi un quadro con l'effige del Santo. Ma come , che effige io sono un paesaggista. I preti si rivolsero alla Contessa Guicciardini che aveva una litografia de Santo. Mi presentai alla tenuta dove la Contessa abitava ed ebbi questa litografia. Per me fu un problema, la figura del Santo, doveva essere una volta e mezzo l'altezza di un uomo, perché tale era lo spazio  da riempire sull'altare. Dopo prove e riprove riuscii  a terminare l'effige del Santo.
Dopo la sistemazione del Santo nel vano dell'altare ci fu, per la sua festa la benedizione.
Intervenne S.E. Eccellenza il Vescovo di Grosseto e dopo la benedizione, ai piedi del Santo fu deposta un'urna di vetro con le Reliquie.
Penso che a tutt’oggi il quadro sia sempre al suo posto.
Roberto aveva terminato le elementari, non intendevo mandarlo su e giù con il treno a Grosseto. Decidemmo di fargli fare le scuole medie dai Salesiani a Livorno.
In quei giorni da Roma il Ministero della Marina mi inviò tutti i documenti che mi mancavano. Con ordine Ministeriale il 3I/05/1943 fui promosso Capo Elettricista C.G. di 3 Classe; e in data 4/IO/I97I, mi fu concessa la seconda Croce di Guerra al Merito e la Campagna di Guerra 1940-1943, dopo tanto attendere avevo avuto i documenti che meritavo.
A Pisa stavano iniziando i lavori per applicare la manovra elettrica a tutti gli scambi. Dato che io ero abilitato  a gli A.C. feci domanda per andare a Pisa in trasferta.
La mia domanda fu accettata e andai a Pisa in trasferta. Appena furono pronti gli alloggi in un palazzo di nuova costruzione,  mi proposero il trasferimento a Pisa, che accettai.
Feci il trasferimento della mobilia e così da Montepescali, ci facemmo Pisani.
Roberto così fece la terza media a Pisa, al termine delle medie si iscrisse all' Istituto Tecnico ramo elettronica. Intanto io detti gli esami per operaio specializzato e fui promosso. Facevo i turni in cabina A.C. e così il tempo passava. Feci un corso per corrispondenza di scuola radio con esito positivo. Mi costruii il primo televisore mono-canale,  poi lo modificai quando venne fuori il 2° canale. Con l'aiuto di Roberto, feci un plastico ferroviario dove circolavano più treni, il plastico era tutto centralizzato. (Attualmente lo conserva Roberto a Carrara con locomotive e vetture). Poi costruimmo un MAS  radio comandato, questo lo conservo io. Roberto prese la patente guida appena raggiunta l'età di 18 anni, fu poi ammesso all'Accademia Navale di Livorno come A.U.C.D.
Una volta libero dal militare, si mise a fare l'assicuratore a Pisa, in un secondo tempo a Cecina come titolare di quell'Ufficio. Passati alcuni mesi fu chiamato a Dalmine dalla Dalmine e assunto come Perito Industriale.
A Dalmine conobbe una professoressa delle scuole medie Gisella,  marchigiana, così si fidanzò. Fu poi trasferito a Massa alla Dalmine,  cercò casa e un bel giorno nel Duomo di Pisa si sposò.
Dopo poco più di un anno nacque a Pisa Roberta. A distanza di circa un anno sempre a Pisa nacque Monica. Oggi dopo poco più di 30 anni, Roberta é un bravissimo avvocato e si é sposata.
Monica si è laureata in Architettura con 110 e lode, ora ha cominciato a fare i primi lavori.
Io sempre a Pisa, feci un concorso e passai a gli uffici del reparto come Applicato Tecnico.
Non ero però c o n t e nt o , ero alle dipendenze di un segretario tecnico, pensavo di poter gestire qualche lavoro in proprio,  mentre li fungevo come da ragazzo di bottega. Scrivevo a macchina lettere per altri, andavo a prendere le misure di lavori altrui, facevo parecchi disegni di svariati lavori che io non conoscevo.
Un giorno stufo di questo tran tran, andai a Firenze per conferire con il capo del personale, feci presente le mie lagnanze, dicendogli che se non cambiavo,preferivo ritornare a fare il capo turno in cabina A.C. a Pisa.
Dato che i segretari della divisione I.E.,  erano tutti in missione per l’elettrificazione  della Sicilia, della Calabria, e la costa Adriatica, da Ancona a Bari, mi propose di venire a Firenze con domicilio a Pisa.  Io accettai cosi cominciai a fare il pendolare. Come capo reparto avevo il seg. tecnico Domenici anche lui pendolare da Livorno. Quando seppe che anch'io venivo a Firenze alle sue dipendenze fu molto contento, perche ero stato suo dipendente durante la ricostruzione della linea di contatto da Livorno a Grosseto e mi aveva sempre stimato. Il primo lavoro che ebbi fu il cambio dei conduttori e isolatori della linea a 60.000 Volt da Massa a La Spezia. Fui molto contento e felice così Danila poteva stare vicino a Roberta e Monica per accudirle e anch’io rimanere a Carrara. Mentre si eseguivano questi lavori, al sig. Domenici offrirono un posto a Genova di capo sezione che accettò.
Andammo dal capo sezione nostro, dicendogli che io mi sentivo all'altezza di continuare il lavoro da solo e cosò fu. Terminato quel lavoro, me ne fu affidato un altro. Elettrificare i 10 binari nel porto di La Spezia, situati fra il silos e la strada che da La Spezia va verso San Terenzo e Lerici. Anche questo lavoro lo terminai bene e senza guai. I segretari tecnici fiorentini, per i vari lavori, non amavano allontanarsi da Firenze perché gli portava via giornate intere di assenza dalla sede. Tanti avevano un ufficio tecnico in città, ecco perché preferivano lavori anche piccoli vicino a Firenze. Così nessuno si lamentava perché davano lavori così lunghi e di una certa importanza, a me semplice Applicato Tecnico. In seguito gestii i lavori di spostamento di alcuni tralicci della linea 120.000 Volt nei pressi di Chiusi per lasciare spa­zio alla costruzione dell'Autostrada A1.  Segui anche altri lavori sulla linea 120.000 Volt, da Chiusi a Riccione per cambio di cavi e isolatori fino al Passo di Via Maggio e lavori simili vicino a Pontremoli, per spostare alcuni tralicci per il passaggio dell'Autostrada La Spezia Parma. Così pure nei pressi Forte dei Marmi per il passaggio dell'A12.
Roma aveva indetto un concorso per chi voleva passare da Applicato Tecnico Capo a Segretario Tecnico Capo. Io ormai cinquantenne non mi sentivo di rimettermi a studiare elettrotecnica e contabilità. Furono i miei superiori diretti che insistettero tanto perché questa qualifica me la meritavo.
Ripresi i libri in mano, studiavo a casa e durante i viaggi in treno.
Andai al concorso e fui fra i primi vincenti. Da quel giorno ebbi la nomina di Segretario Tecnico Capo. Mi affiancarono un P. Industriale appena assunto in sottordine. Quando mancavano solo 3 anni alla pensione, poiché abitavo a Pisa, mi affidarono un gravoso incarico: cambio di conduttori e isolatori del 120.000 Volt che dalla sottostazione elettrica di Massa, passava da Pontremoli, Borgo Taro e andava a Parma.
Fare lo studio e realizzare la nuova palificazione, in sostituzione della vecchia, da Sarzana a Fornovo Taro. I lavori iniziarono contemporaneamente. Tutti i giorni ero sulla P0ntremolese o in primaria. Quando ero su i binari e fra le gallerie per sorvegliare il getto del calcestruzzo dei nuovi blocchi per i nuovi pali, quante paure quando dalle gallerie sbucavano improvvisamente dei treni. Sovente con me portavo il sottordine perché prendesse pratica così poi, mi poteva aiutare per fare i disegni, la contabilità e le relazioni dell'andamento dei lavori. Ogni fine mese andavo a Firenze per controllare gli stati di avanzamento e così la ditta poteva riscuotere per quanto lavoro aveva fatto in quel mese.
Nell'ottobre del I975 i lavori erano ultimati. Mancavano da finire alcuni disegni e la chiusura dei conti. Tutto passo nelle mani, del P.I. che in 3 anni era stato alle mie dipendenze si era fatto le ossa ed ora poteva proseguire da solo. Venne così il fatidico giorno che anelavo. Il I3/10/1975 fui messo in quiescenza.
Il Capo Divisione, l’ingegneri Capi Reparto e tutti i colleghi e ­addetti alla Divisione, furono tutti attorno a me. Si brindò, mi regalarono una pergamena con le firme di tutti ed un assegno perche acquistassi a Pisa un orologio a pendolo che tuttora batte le ore. Così è finita la mia vita lavorativa, dopo la Marina ora le F. S..
Nel 1960 avevo acquistato un appartamento in costruzione a Follonica. L'avevo affittato, ma ora era libero. Dopo averci fatto alcuni lavori, potevo andare ad abitare.
Speravo che l'appartamento che occupavo a Pisa me lo cedessero a riscatto. Non fu così, ed io poco dopo lo lasciai libero e mi trasferii a Follonica.
Follonica cittadina quieta al centro dell'omonimo golfo, temperatura mite anche nell'inverno, un mare limpido, belle spiagge, acque basse adatte per bambini.
Dal dopo-guerra in poi avevo perso molte persone a me care. Nel 1961 persi mio padre, aveva avuto una paraparesi agli arti inferiori, Nel 1968 persi mia madre, nel 1970 fu la volta di mio Fratello, affetto da un tumore al fegato, io per procurargli un siero scoperto da un veterinario di Agropoli (SA), partivo da Pisa alle ventitre circa e dopo aver viaggiato tutta la notte arrivavo ad Agropoli nella mattinata, mi accodavo alla fila di gente per mettermi in nota. Nel tardo pomeriggio ci consegnavano il siero, con il primo treno utile ripartivo. Ripassavo tutta la notte in treno, la mattina dopo arrivavo a Campiglia, poi a Piombino, consegnavo il siero e ripartivi per Pisa e poi Firenze. Di questi viaggi ne feci una decina, ma a nulla valsero. Nel 1977 persi i due zii di mia moglie, primo fu zio Danilo dopo poco la zia Clarissa. Nel 1979 persi la mamma di Danila, mia suocera.
La vita scorreva normale da pensionato. Già dal 1965 io mi ero iscritto al gruppo A.N.M.I. associazione di ex marinai di Pisa e lui ero fatto trasferire da Pisa a Follonica. In questa nuova sede ero stato eletto consigliere del gruppo.
Andavamo spesso come rappresentanti a varie manifestazioni dove ci invitavano, spesso anche in gite di piacere, annualmente anche uscite in mare su navi della Marina Militare.
Il 28 maggio 2005, facemmo una gita all’ isola di Pianosa dell'arcipelago toscano, eravamo circa cento persone. Con me c’era Danila, Roberto, Gisella, mio nipote Dr Stefano con moglie e figli.
Arrivati a Pianosa verso le ore 10,00, furono formati due gruppi di persone, uno visitava prima il penitenziario, poi il Castello e i ruderi romani, l'altro faceva il giro alla rovescia. Danila ed io rimanemmo ad aspettare sul battello per il pranzo.
Avevamo deciso di fare il bagno nel pomeriggio, ci avevano indicato dove si doveva fare, in quale parte di spiaggia che era poco distante da dove eravamo. Per non  stare senza far niente, decisi così di fare il bagno subito. Danila ed io scendemmo in spiaggia, acqua limpidissima, mi spogliai ed entrai in acqua, c’era un pianoro in cemento che dovevo attraversare per trovare l'acqua più profonda, m’inoltrai sul pianoro dove l'acqua non mi copriva il piede. Arrivato a metà pianoro, che era ricoperto di erbetta viscida, scivolai e caddi all'indietro battendo la testa e  svenni. Con metà testa ero fuori dall’acqua perciò respiravo, c'erano quelle piccole onde che passavano sopra la testa e quelle mi facevano bere.
Dopo circa venti giorni mi svegliai da quel lungo sonno.
Ero all'Ospedale di Pisa in rianimazione, avevo una gran quantità di tubi e tubicini, tossivo di frequente e dai polmoni, mi veniva fuori sabbia finissima.
Non potevo parlare perche avevo un tubo nella trachea.
Quando permisero a Roberto e Danila di farmi visita, mi raccontarono tutta la scena a seguito del mio svenimento. Quando Danila, durante il mio bagno vide che non mi rialzavo e le piccole onde mi coprivano la testa, si mise a gridare aiuto.
Nelle vicinanze vi erano due ergastolani, corsero e mi tirarono fuori dall'acqua. Mi fecero la respirazione artificiale e ciò che si può  fare a un annegati. Intanto arrivò Roberto e gli altri, stavo per andare nel mondo dei più. Arrivo l'elicottero dell’elisoccorso da Grosseto, il dottore che era a bordo con mio nipote Stefano m’intubarono e mi portarono all’ospedale di Pisa in rianimazione.
Il tempo non passava mai, i degenti dormivano tutti, sia con il dottore di turno che con gli infermieri che mi parlavano io rispondevo con cenni. Dopo quasi un mese di degenza ormai risanato, mi mandarono all’alto ospedale di Pisa a Cisanello nel reparto di pneumologia per controllare lo stato dei polmoni e per chiudere la tracheotomia.  A Roberto, il Direttore del centro di rianimazione, sentito che la ma a età  era di 92 anni, li disse: a questa età non ce la può fare a vivere.
Questo è quanto disse il giorno dopo il mio ricovero. Invece eccomi ancora vivo.
Dopo una decina di giorni mi richiusero il buco della trachea e ricominciai a parlare, mi tolsero anche l'ossigeno. Non stavo in piedi, quindi dovevo andare in un centro di riabilitazione. Nei centri più vicini non vi erano posti disponibili. Fra Roberta e Monica che avevano delle conoscenze, riuscirono a farmi ricoverare al Don Gnocchi di Sarzana.
Dopo quindicina di giorni ricamminavo anche se con il bastone. Rientrai a Follonica e ripresi il mio tran tran.
In data 1° giugno 2005 mi fecero Cavaliere della Repubblica Italiana. Il 12 agosto il Prefetto di Grosseto mi consegnò la croce di Cavaliere e la pergamena.
Appena arrivò da Roma la croce da Cavaliere O.M.R.I. (Ordine Militare Repubblica Italiana), il gruppo A.N.M.I. di Follonica, retto dal Presidente sig. Roberto Baldi, prese accordi con il sindaco di Follonica, per la consegna ufficiale della croce da Cavaliere.
Fu una bella cerimonia con rinfresco vi fu una presenza di molti invitati oltre a tutti i miei familiari. Era presenti anche gli Ammiragli Francesco Longo rappresentante dell’ A.N.M.I. per la Toscana e l’Ammiraglio di squadra Luigi Faraglia per la Toscana Sud. I due ammiragli si sono dati molto da fare per farmi avere il cavalierato il più presto possibile data la mia veneranda età.
Dimenticavo di dire che nel 2000 fui ricoverato all’ Ospedale di Carrara per essere operato all’intestino per togliere alcuni polipi. Dimagrii parecchio ma mi ripresi bene. L'anno scorso 2006, andammo in rappresentanza del gruppo A.N.M.I di Follonica, all'Accademia Navale di Livorno, per il giuramento degli Allievi Ufficiali. Nel salire sulle tribune ai noi assegnate, per salutare alcuni colleghi di Piombino e dell' Isola d’ Elba, misi un piede sullo scalino troppo in punta, quando feci lo sforzo per salire, il piede scivolò sfregando nello scalino metallico, mi procurai un bello strappo nello stinco a J, portandomi via un bel pezzo di pelle. Con l' ambulanza della Marina accompagnato da un tenente medico e da un collega del mio gruppo mi portarono in Ospedale a Livorno. La sera mi addormentarono, mi suturarono la ferita  con 16 punti. Era di sabato il 2 Dicembre 2006, passai la notte bene, nel pomeriggio di sabato vennero subito a trovarmi Roberto e Gisella, avvisati per telefono dal presidente del mio gruppo. Il lunedì 4 ritornò Roberto con stampelle e mi riportò a Follonica. I punti dopo 15 giorni mi furono tolti da un infermiere, che due volte la settimana  veniva a medicarmi.
Oggi siamo al 23 Giugno 2007, la pelle mi si è rinforzata. Ora tengo la gamba fasciata così la ferita può prendere aria e sole.
Dal 1° Luglio 2007 cominceremo ad andare al mare, ma per qualche giorno ancora non potrò fare il bagno. Pensavo che la mia odissea fosse finita, stavo per compiere novantaquattro anni, invece no! Un giorno prima di andare al mare, andavo a  fare la spesa al mercato coperto. Appena giunti, a Danila prese un gran dolore alle ginocchia bloccandole. Per portarla a casa dovetti prendere un Taxi. Chiamammo il dottore, il quale le ordinò delle punture al cortisone. Non l'avesse mai prese, poiché lei faceva un cura per i nervi a base di Litio, la scombussolò tutta. Non stava più in piedi, per mangiare bisognava imboccarla.
Avvisammo Roberto e venne subito assieme a Gisella. Le cose non migliorarono. Fu sentito a Pisa il Prof. Cassano che consigliò vi fare analisi del sangue per vedere la percentuale di litio. Fu  ricoverata a Piombino in cardiologia, nel reparto dove prestava servizio mio nipote Stefano per un controllo cardiaco e disintossicarla dal litio. Questa vita non poteva durare a lungo. Roberto e Gisella dovevano rientrare in sede, dove avevano le figlie Roberta e Monica. Roberto avrebbe dovuto fare una vita massacrante, partendo da Carrara, venire a Follonica prendere Danila, andare a Pisa all'Ospedale, dopo la visita tonnare a Follonica, ripartire per tornare a Carrara.
Donne a Follonica che potessero stare due o tre ore a casa mia per accudire alla casa e farci da mangiare, non se ne trovavano. Decidemmo così di trasferirci a Carrara. Il ragazzo di Monica, Andrea, ha un appartamento libero cosi lo abbiamo affittato noi. Una volta a Carrara e occupato l'appartamento, trovammo un donna che veniva tutti i giorni facendo le pulizie e il mangiare. Non era finita qui, Danila sin da quando abitavamo a Pisa aveva il glaucoma e dall'occhio sinistro non ci vedeva più. Al destro aveva la cateratta che gli calava. Danila aveva paura a operarsi per togliere la cateratta, eravamo stati da un professore e così si espresse quando andrai  a sbattere per i muri vuol ­dire che non ci vede più, allora la opererò e così ci vedrà. Qui a Carrara ha cominciato ad avare dei disturbi all'occhio destro, fatta visitare gli dissero d’operarsi. La cateratta era ormai diventata troppo spessa e dura, pur opera  ci vede pochissimo, appena poco oltre il piede.
Fra i nervi e l'occhio spesso si lamenta, ed è da capirsi e cercarla di sollevarla.
Dei nervi va sempre migliorando lentamente, ha degli alti e bassi in specie ai cambi di stagione.
Lasciammo Follonica Il 22 di Settembre del 2007 ed ora siamo vicinissimi al Natale del 2008.
Questa estate solo un paio di volte siamo andati al bagno dove va Roberto e famiglia, a Danila quel riverbero del sole le da noia agli occhi, io con grande rammarico ho dato l'addio ai bagni. Capisco che ritornare a Follonica è una chimera. Gli ultimi giorni li passerò qui come un Esule.

P.S. Durante la stesura di quanto mi è capitato in questi 95 anni, spesso ho nominato Roberto, Gisella, Roberta e Monica. Benché abbiano fatto tantissimo per noi non li ho mai ringraziati ufficialmente. Con queste due righe lo faccio ora.
Oggi 26 Dicembre 2008. Non faccio punto e basta perché attendo un lieto evento,  se ci arrivo.
In data 9 marzo 2009 sono diventato Bisnonno di una bella bambina di nome Livia Maria e ne sono orgoglioso, dato che non avendo assistito alla nascita di mio figlio Roberto perché ero in guerra nell’Egeo a Lero.
Ora mi sento contento e appagato. Come pure mi sento fiero e orgoglioso del mio passato. Ho servito l’Italia con onore sia sotto il Regno poi nell’Impero e quindi sotto la Repubblica. In marina ho meritato una croce al Valor Militare, nella Repubblica il cavalierato dell’ordine Militare.
Chiudo definitivamente queste mie memorie, pur essendo esule dalla mia casa.

                                                                           Catalucci Renato

Carrara 16 aprile 2009

H O M E



Molto volentieri pubblico le memorie del marinaio (2° C° Elettricista Conduttore Girobussolista)Renato Catalucci papà del nostro amico e socio Roberto. Personalmente ho tovato il racconto semplice, sincero e vissuto, che molto mi ha fatto riflettere del modo di vivere degli anni a cui la storia fa riferimento.
A.N.M.I.- Associazione Nazionale Marinai d'Italia
Gruppo di CARRARA- Medaglia d'oro V.M. "Alcide PEDRETTI"
Viale C. Colombo 6/A -54033 Marina di Carrara
Tel. 0585 782573 Fax 0585 782574 (anmicarrara@gmail.com)